Frozen River – Fiume di ghiaccio
Italia 2002
di Courtney Hunt. Con Melissa Leo, Misty Upham, Charlie Mc Dermott, Mark Boone jr., Michael O’Keefe, Jay Klaitz, Bernie Littlewolf, Dylan Carusona.

Confine tra lo Stato di New York e il Quebec, pochi giorni prima del Natale. Ray è stata abbandonata dal marito senza denaro e con due figli, uno di 15 e uno di 5 anni. La famiglia stava per realizzare il sogno di una nuova casa prefabbricata che sostituisse quella in progressivo degrado in cui i suoi componenti abitano.
Un giorno Ray conosce Lila Littlewolf, una giovane donna appartenente alla comunità Mohawk che vive sulle rive del fiume San Lorenzo che, ghiacciandosi in inverno, diviene una strada percorsa per far entrare clandestini negli Stati Uniti. Lila appartiene al giro e Ray finisce con l'affiancarla.
Courtney Hunt, alla sua opera prima come regista e come sceneggiatrice, non solo ha avuto una nomination all'Oscar ma ha portato fortuna alla sua attrice protagonista Melissa Leo (anch'essa presente agli Oscar nella cinquina delle migliori attrici e vincitrice di una serie di premi in altre manifestazioni).
Avendo ottenuto il Premio della Giuria al Sundance, Frozen River entra a buon diritto nell'ambito di quel cinema indipendente americano che ancora esiste ed è capace di sfuggire alle sirene del mainstream.
Si potrebbe, a un primo sguardo, accusarlo di idealizzare le condizioni umane che va a narrare. I nativi vivono di illegalità ma sono in fondo di buon cuore, i meno abbienti nutrono sentimenti nobili e via elencando…
Ma non è così perché questo è un film che spinge lo spettatore ad andare oltre la prima impressione. Raccontando dell'incontro di due donne provate dalla vita, scava nel senso di responsabilità nei confronti dei figli inserendo il tema in un contesto che il cinema made in Usa ci ha abituato a veder rappresentato in altri climi. Il traffico di clandestini è quasi sempre legato alla frontiera con il Messico. Il ritrovarlo sullo schermo nel gelido nord modifica le coordinate della percezione, non solo visiva.
Le algide contrattazioni rendono ancor più concretamente tragica (quasi fossimo in un film dei Coen) la dimensione della sopravvivenza ottenuta al prezzo dello sfruttamento di altri esseri umani.
Hunt però, in un film in cui i confini marcano la loro incombenza non solo tra gli Stati e le Riserve ma anche tra le persone, sa scrutare nel profondo dell'animo umano. Il suo sguardo è rivolto verso un sentire che accende in due donne, distanti per cultura e origini, il progressivo calore di un tentativo di solidarietà.

Giancarlo Zappoli
www.mymovies.it

"Cartellazzi stradali verdi con scritte bianche Land of Mohawk, benzinai scalcagnati, drugstore sgangherati, prefabbricati dalle grondaie arrugginite al posto di case e un fiume ghiacciato.
'Frozen River', regia di Courtney Hunt, è collocato e diluito in mezzo a questi elementi d'ambiente che lo sorreggono e arricchiscono di suggestioni visive.
Campi lunghissimi per almeno venti-trenta minuti di film che amplificano l'allontanamento, l'essere sui generis del luogo.
Il fiume ghiacciato, infatti, è pista, percorso provvisorio e clandestino che collega Canada, stato del Quebec, e lo stato americano di New York.
Tragitto abusivo, improvvisato e rischioso attraverso il quale lavoratori stranieri, o non statunitensi, entrano illegalmente negli Stati Uniti. (...)
La macchina da presa della quarantaquattrenne Courtney Hunt, alla sua opera prima, è lievemente indecisa su come gestire la vicinanza fisica del mezzo ai protagonisti, proprio dopo aver deciso che il paesaggio deve fare significativamente pari e patta con corpi e visi.
Ne risulta un film esteticamente ancora di scarsa chiarezza ed esperienza sorretto però da una certa concretezza nell'imporre ritmo sincopato al racconto e da uno script ricco di spunti a raggiera: i vari casi dei clandestini mai trattati in crescendo o rendendoli retoricamente emblematici, lo spigoloso rapporto di Ray con il figlio più grande, quella sorta di autismo fastidioso di Lila.
E poi c'è il tema dell'immigrazione clandestina: forte, intenso, penetrante che non può lasciare indifferenti.
Melissa Leo, bella faccia segnata e fisico tonico, è sempre stata un'onesta figurante fino all'exploit di 'Frozen River'."

Davide Turrini
'Liberazione', 20 febbraio 2009

rassegna Mimosa forever

Irina Palm USA 1986
di Sam Garbarsky. Con Marianne Faithfull, Miki Manojlovic, Kevin Bishop, Dorka Gryllus, Jenny Agutter, Corey Burke.

La linea di confine
Maggie è una nonna per bene, nonostante a Soho si trasformi in Irina Palm e sia la maga del sesso manuale. Maggie mantiene la sua aria da dignitosa e rispettabile signora di provincia anche mentre viene illuminata dal neon delle insegne dei locali notturni, o mentre si accinge a lavorare in uno dei club a luci rosse che animano il buio confusionario di Londra. Irina Palm non esiste. Irina Palm è un mezzo che consente a Maggie di provare a vedere realizzato il suo sogno: la guarigione di quel nipotino da tempo malato, la speranza di poter cogliere una scintilla di salute nello sguardo dolce e indebolito dalla malattia di quel bimbo al quale è così strettamente legata. Non c’è volgarità nei gesti di Maggie, non c’è nulla di scabroso nella sua scelta: masturbare i clienti del sexy club dove lavora è solo un metodo come un altro per procacciarsi denaro e nulla è eccessivo quando c’è in ballo la vita di un bambino. Garbarski parla di amore e lo fa affrontando il sentimento più pulito possibile: quello che lega una donna al proprio nipote. Se la nonna dolce ed affettuosa de Le Temps qui reste era destinataria di confessioni da sussurrare, qui Maggie promette al nipotino di rivelargli la verità solo una volta cresciuto, preservandolo da un segreto difficile da svelare e soprattutto proteggendolo dall’incomprensione. Il bigottismo spesso imperante viene spazzato via con decisione da una sceneggiatura tanto esile quanto ferma nel ribadire la moralità delle scelte della protagonista. “Eticamente accettabile” non è chiudersi dietro alle barriere dell’ipocrisia (l’amica scandalizzata, che però in passato non si era fatta scrupolo nel portare avanti una relazione con il marito di una delle sue più care “compagne di tè”) quanto aprirsi a qualunque possibilità, anche quando si è costretti a tirare in ballo tutti i propri valori e le proprie certezze. Maggie non è orgogliosa del suo lavoro di masturbatrice, ma va giustamente fiera del suo impegno nel salvare il proprio nipote: la prostituzione delle proprie mani è semplicemente parte integrante di un percorso che porta all’esaltazione del sentimento a discapito di qualsiasi altro agente esterno. La stessa vergogna che la donna prova nei primi giorni di lavoro, quando teme che la sua attività “illecita” possa essere scoperta dai suoi concittadini e dalle sue amiche si dissolve a poco a poco, mitigata dalla consapevolezza della normalità delle situazioni che si ritrova ad affrontare e dell’umanità che la circonda (la collega ragazza madre, il boss dai modi duri che nasconde le sue fragilità e la sua tenerezza). La famosa scelta fra essere e apparire, inflazionata al cinema ma anche e soprattutto altrove, trova nel film di Garbarski una nuova (ma certamente non innovativa) declinazione. Irina Palm non è una pellicola che sbriciola le recinzioni del qualunquismo, ma cerca quanto meno di aprirsi un varco con l’originalità di una vicenda che appare incredibilmente sincera. Non c’è ironia nelle vicissitudini narrate né comicità spicciola: il sorriso, leggero e soprattutto amaro, nasce dalla consapevolezza di una realtà difficile da accettare, che non viene imposta come moralmente ortodossa ma alla quale viene dato il compito di incentivare il desiderio di riflessione. La vita della famiglia di Maggie, già debilitata dalla malattia del bambino, è ulteriormente scossa dall’imprevedibilità della scelta della donna: perché i soldi non danno la felicità, ma sicuramente aiutano a raggiungerla. Indubbiamente poi Garbarski ingarbuglia le carte, cerca la svolta sentimentale in un amore dolce e casto ambientato in locale a luci rosse e ripiega un po’ troppo sul lieto fine: ciò non toglie che Irina Palm (le cui sottili riflessioni richiamano vagamente la sensibilità almodovariana) riesca con garbo ad affrontare un tema “scomodo” (o presunto tale) annientando ogni spunto “trasgressivo” e anzi colorando di soave naturalezza una situazione complessa e tortuosa. Mentre il dramma viene insonorizzato dalla leggiadria della commedia, si spande nell’aria il martellante battito della musica sulla quale si avvitano le ballerine di lap-dance, rumore che si mischia ai gemiti dei clienti di un sexy club. Nella mente di Maggie però non c’è spazio per la volgarità. Un vasetto di fiori sul tavolo di lavoro, un quadruccio appeso alla parete che la separa dagli uomini che “aiuta” e un sorriso stampato negli occhi: quello di suo nipote.

Priscilla Caporro
pubbl. 13-12-2007

www.spietati.it

rassegna Mimosa forever