Dieci inverni
Italia 2009, di Valerio Mieli


Con Isabella Ragonese, Michele Riondino, Liuba Zaizeva, Sergei Zigunov, Sergei Nikonenko, Alice Torrioni, Vinicio Capossela, Glen Blackhall, Sara Lazzaro, Francesco Brandi, Luca Avagliano, Francesca Cuttica Roberto Nobile.

"Dieci inverni è la storia di due ragazzi che non riuscendo ad amarsi subito devono imparare a farlo, destreggiandosi tra le difficoltà di diventare adulti. Per raccontare questa storia d'amore volevo una forma di romanticismo che fosse vera e fiabesca insieme. Per questo ho scelto di ambientare il film un una città poetica come Venezia, ma mostrandone il volto più quotidiano dei mercati, dei bàcari e dei vaporetti. In tutte le fasi della lavorazione, dalla scrittura al lavoro con gli attori, fino a quello sulla musica, la mia preoccupazione principale è stata di mantenere quest'equilibrio tra realismo e levità". Così Valerio Mieli presenta il suo primo film. Dopo essersi diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia il giovane regista approda al grande schermo con un progetto nato tra le aule del CSC e prodotto completamente entro i suoi confini. Ed indubbiamente ci troviamo davanti ad un esordio ben riuscito. La sua è la narrazione del prologo di un amore portato avanti per quadri fotografici, con un susseguirsi di istantanee rubate dalla vita di due ragazzi simili eppure così distanti. Lo spettatore si muove in maniera intermittente all'interno delle loro giornate senza mai soffermarsi abbastanza da poter assaporare la fine dell'inverno, senza mai veder sorgere il sole sulla laguna veneziana. Non sappiamo cosa davvero accada a Camilla e Silvestro nel momento in cui non li spiamo, possiamo solo immaginarlo dalle conseguenze proposte dalla scena successiva. Un modo di raccontare una storia originale e dal particolare impatto emotivo: non istruendo un pubblico onnisciente, il regista mostra solo ciò che vuole far vedere, sottolineando cosa per lui è davvero importante, ponendo l'accento sul momento esatto in cui i meccanismi scattano e la vicenda prosegue. Così ci si ritrova a vedere come fondamentali eventi che contrariamente ci sarebbero sembrati di importanza secondaria: il portarsi insieme ai bagagli un oggetto ingombrante ma che ci da sicurezza come una lampada o un alberello, o il simbolismo conferito a delle lumache che segnano i primi anni del rapporto tra i due protagonisti. Quella tra Camilla e Silvestro è una storia d'amore che passa attraverso l'inverno, dieci esattamente, stagione normalmente nota per la sua rigidità, per il freddo che congela qualsiasi cosa, anche sentimenti e comportamenti. Un vivere ibernati all'interno di una propria concezione che viene costantemente sottolineato dalla fotografia di Marco Onorato (Fortapàsc) che, spostandosi tra Venezia e Mosca, ritrae una storia apparentemente fredda dove i protagonisti, piuttosto che i colori, sono i sentimenti, posti in continuo equilibrio dinamico.
La luce calda, come uno spiraglio di speranza, appare solo in momenti ben oculati, quando le barriere che sembrano intrappolare Camilla e Silvestro, finalmente esplodono. A dare vita a Dieci inverni c'è anche un cast giovane che vede a capo Isabella Ragonese (Oggi sposi, Il cosmo sul comò) e Michele Riondino (Il passato è una terra straniera), entrambi in buona sintonia con i proprio ruoli, affrontati in modo delicato e mai sopra le linee. Attori che crescono con il passare del tempo filmico e maturano sia nelle espressioni che nei gesti, naturali anche quando sono più inclini alla fiaba che alla realtà. Il progetto è insomma una miscela ben dosata di esperienza tecnica ed emozioni, una storia ben raccontata anche grazie alle suggestive atmosfere musicali create da Francesco de Luca ed Alessandro Forti. Durante il matrimonio di Liuba fa la sua comparsa anche un insolito invitato (Vinicio Capossela) che, con la sua "Parla Piano", regala un momento intenso e piacevole. Antonella Murolo - everyeye.it (...) toccante e non retorico film di Valerio Mieli (...). Il film, anche se ogni tanto con qualche peccato veniale di carineria, ci vendica delle molestie dei film teenager monumenti di falsità modaiola. Questa, fra nebbie e nevi, è una mini love story continuamente interrotta, che diventa grande se lo spettatore ci soffia dentro qualcosa di suo (...) Maurizio Porro – Corriere della sera (...) una commedia sentimentale credibile intorno a un "luogo" dell'amore dai margini non ben definiti. (...) Dario Zonta – L’Unità Un film dolce e malinconico (...). Ruffiano come è un po’ per tutti i racconti che hanno per protagonisti i giovani, Dieci inverni lo è però con una grazia priva di malizia e di furberia. Stenio Solinas – Il Giornale (...) una commedia sentimentale che, più che italiana, sembra francese grazie a una sceneggiatura quasi perfetta e a due attori magnifici che si portano sulle spalle il film: Isabella Ragonese e Michele Riondino (...). Un'opera delicata e minimale, neorealismo del nuovo millennio (...). E' questo il cinema italiano che vogliamo vedere. Andrea Morandi - CIAK Un buon inizio, questo del neoregista Valerio Mieli. Racconta di Camilla e Silvestro, due matricole fuori sede che s’incontrano la prima volta a bordo di un vaporetto deserto immerso nelle nebbie invernali veneziane. Caso vuole che, pur essendo subito chiara la scintilla contraddittoria dell'attrarsi e del respingersi, i due ragazzi passino la notte insieme senza toccarsi. È l'inizio di un percorso decennale, lungo il quale le dolorose conferme del non sapersi prendere si accompagnano al loro diventare adulti, uomo e donna. Tono deciso, finezza di tocco, atmosfera un po' fuori dal mondo e dal tempo, capacità di portare avanti una storia dove non accade quasi nulla.
Paolo D’Agostini – La Repubblica
Il profeta
(Un Prophète) Francia-Italia 2009
di Jacques Audiard.

Con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi., Jean-Philippe Ricci, Gilles Cohen, Antoine Basler, Leïla Bekhti, Pierre Leccia, Foued Nassah, Jean-Emmanuel Pagni, Frédéric Graziani, Slimane Dazi, Rabah Loucif.


Bildungspolar concentrazionario

Come Sure inesorabili di un Corano criminale, capitoli introdotti da perentorie didascalie (Reyeb, Ryad, les yeux les oreilles...) scandiscono l'impaginazione narrativa di Un Prophète, quinto lungometraggio del figlio d'arte Jacques Audiard, auteur che si sporca le mani con gli ingranaggi del polar fin dal suo primo titolo (Regarde les hommes tomber, 1994). Le due linee guida lungo le quali si muove l'opera del cinquantasettenne cineasta parigino sono un'estetica cinematografica poderosamente sensoriale e una predilezione per vicende umane sconvolte dalla rivelazione di un’inclinazione nascosta. Il già citato noir d'esordio e i successivi Un héros très discret (1996), Sulle mie labbra (2001) e Tutti i battiti del mio cuore (2005) raccontano sostanzialmente la stessa storia: quella di individui che, messi con le spalle al muro da eventi e circostanze fortuite, scoprono o esaltano un talento sconosciuto o sopito. La rivelazione è devastante: da quel momento la loro vita non potrà più essere la stessa. Dopo il traballante De battre mon coeur s'est arrêté - penalizzato dal confronto con l'originale (Fingers, 1978, di James Toback) e irrigidito dalla presenza di Romain Duris (platealmente inadeguato nella parte che fu di Harvey Keitel) - Audiard firma con Un Prophète il suo lavoro più imponente e compiuto. Imponente per durata (155’) e portata allegorica (il carcere come riproduzione in scala di un’intera società); compiuto poiché parabola individuale, quadro d'insieme e tensione drammatica armonizzano perfettamente tra loro per dare vita a un’opera di esemplare durezza e feroce umanismo. Compattezza è la parola chiave: Malik (un Tahar Rahim impressionante) è totalmente assimilato alla prigione, non c'è un prima (se non una vaga allusione al riformatorio) né un dopo (se non un’ipotetica reintegrazione familiare) nella sua esistenza, solo un presente di detenzione, regime talmente interiorizzato da coinvolgere nelle sue dinamiche anche l'esterno, dove vigono le stesse leggi di corruzione, coercizione e punizione che regolano il codice della taule (“la gattabuia”).
La galère non è circoscritta alle mura della “Centrale” di Brécourt ma è ovunque, come Ryad (Adel Bencherif) scrive a Malik dal mondo senza sbarre apparenti. Uno stato mentale. Incipit: particolare delle mani ammanettate di Malik. Finale: il suo primo piano a tutto schermo. Un Prophète mette in scena la costruzione di un soggetto strutturato a partire dai suoi frammenti fisici. Dalle mani al volto, passando per una bocca che nasconde una lametta (l’eliminazione di Reyeb), occhi e orecchie prestati alla mala corsa (incarnata dal boss César Luciani, un Niels Arestrup titanico) e piedi nudi che calpestano i segni tracciati sul pavimento delle perquisizioni (il rientro in carcere dopo il primo permesso giornaliero). Un percorso di formazione che tuttavia necessita del simbolico, della parola per attuarsi. Il linguaggio, da sempre fattore di conflitto in Audiard, si fa autentico campo di battaglia e paradossale principio di identità: assimilando e commutando in continuazione francese (le lezioni di grammatica in prigione), còrso (la frequentazione della fazione Luciani) e arabo (l’ultima visione di Reyeb, vera e propria esortazione alla recita), Malik si affranca dalla sudditanza psicologica dell’autorità per affermarsi quale soggetto autonomo e simbolicamente libero - la sordità temporanea nell’imboscata a Marcaggi segna la definitiva rottura con la ricezione degli ordini impartiti dall’alto. In questo processo di costruzione identitaria Malik si scopre visionario (il talento nascosto): le apparizioni fantasmatiche di Reyeb transitano da incubi di colpevolezza a fiamme di consapevolezza. Dato l’ultimo giro di vite nell’interiorità del suo assassino, Reyeb (Hichem Yacoubi) scompare definitivamente lasciando a Malik un’eredità di sangue e scrittura, un piroettante ciclo di crescita: “uscire di qui un po’ meno stupidi di quando si è entrati”. Un Prophète si smarca così dal generico e convenzionale duello di caratteri (il temibile e carismatico boss contro il novellino che si fa strada) per imporsi come la circostanziata e singolare formazione di una coscienza totalmente impregnata di logiche criminali. Il film di Audiard si sbarazza degli stereotipi psicologistici per divenire analisi di una volontà che non ha altri strumenti formativi se non quelli messi a disposizione dal contesto: astuzia, simulazione, camaleontismo, calcolo. E sempre in questo senso si fa riflessione universale sulle modalità di adattamento e sopravvivenza in un microcosmo che riflette spaventosamente i reali rapporti di potere (razzismo, prevaricazione, corruzione e sfruttamento non sono forse le regole che, dissimulate e ingentilite, governano la società civile?). Macchina a mano sensibile come uno stetoscopio (una Aaton 35 III), Audiard gira con una misura semplicemente miracolosa: mai un’inquadratura giudicante, mai un eccesso didascalico, mai una forzatura patetica. Immersi nell’universo concentrazionario di Brécourt, assistiamo all’odissea di Malik senza un attimo di tregua, senza avvertire il tempo che passa, attraversando il cambio di valuta dai franchi all’euro quale unica testimonianza di un mutamento esterno che tuttavia non ha altro significato che quantificare la trasformazione interna del protagonista. Al montaggio di Juliette Welfling (da sempre alla moviola di Audiard) il compito di stabilire percorsi (est)etici sovraordinati, al di sopra del flusso tumultuoso e travolgente di eventi che segnano indelebilmente la coscienza di Malik come dello spettatore. Cinema morale se mai ve n’è stato uno. Grand Prix della Giuria al 62º Festival di Cannes, vincitore di ben nove premi César e candidato all'Oscar come miglior film straniero. Velo pietoso sull'incorreggibile vezzo dei distributori italiani che anche stavolta storpiano il titolo originale determinando l'articolo: Un Prophète diventa Il Profeta, con uno sgradevole retrogusto criptoxenofobo.

Alessandro Baratti – spietati.it