LOUISE-MICHEL
Francia 2008 di Benoît Delépine, Gustave de Kervern .
 

Con Yolande Moreau, Bouli Lanners, Robert Dehoux, Sylvie Van Hiel, Jacqueline Knuysen, Pierrette , Broodthaers, Mathieu Kassovitz, Albert Dupontel, Benoît Poelvoorde, Francis Kuntz, Hervé Desinge, Joseph Dahan, Agnès Aubé.

“….sono quindi anarchica, perché solo l’anarchia può rendere felici gli uomini e perché è l’idea più alta che l’intelligenza umana possa concepire, finchè un apogeo non sorgerà all’orizzonte….”
Louise Michel

Una piccola fabbrica tessile nella regione francese della Picardia viene chiusa improvvisamente lasciando a casa una decina di operaie che hanno sudato per vent’anni per farla sopravvivere. Con il sussidio di disoccupazione le donne possono fare poco, ma mettendosi insieme potrebbero puntare verso un progetto più grande. L’idea che piace di più è quella di Louise, un donnone taciturno dal misterioso passato. La cifra che possono raccogliere è sufficiente per assoldare un killer per uccidere l’ex padrone, responsabile della loro rovina. La decisione viene presa all’unanimità, ma il killer designato per l’operazione è quanto mai la persona meno adatta al compito.
Il cinema inglese ha scoperto il mondo degli operai disoccupati già al tempo di Margareth Thatcher proponendo film di forte impatto sociale come quelli di Mike Leigh e Ken Loach o caustiche commedie come Full Monthy, Calendar Girls e il recente Kinky Boots e Grazie, Signora Thatcher! commedia dal titolo italiano decisamente evocativo. Oggi la crisi è arrivata anche in continente e il cinema francese si avvicina al tema della fabbrica che chiude per colpa di perfidi speculatori e uno sparuto gruppo di operaie che deve trovare un modo per sopravvivere.
In Inghilterra ci si inventa come ballerini di lap dance, si cerca un’idea per conquistare nuovi mercati come fare le scarpe per i transessuali, in Francia invece dove sono tutti più pacifici ma quando cambia il vento hanno già i sassi in mano la soluzione è drastica, ovvero assoldare un killer per ammazzare il padrone che ha preso in giro i suoi dipendenti. L’attualità dimostra che la finzione non è lontana dalla realtà, visti i frequenti casi di sequestri di manager di aziende in crisi. I ventimila euro che le donne riescono a mettere insieme serviranno per assoldare uno dei killer più incapaci che si sia mai visto al cinema. Il film si sviluppa come una commedia nera ricca di momenti esilaranti ma anche di spruzzi di sangue degni di un film splatter. Da questo particolare punto di vista il film di Benoit Delepine e Gustave Kervern potrebbe quasi essere pervaso da un senso di humour inglese, della più macabra specie. In realtà due sottotesti della vicenda riportano Louise Michel in una dimensione profondamente europea, vicina al Grande Capo di Lars Von Trier nella continua, e vana, ricerca di un responsabile su cui sfogare la propria rabbia, e quando il tema della confusione tra sessi e il ribaltamento dei ruoli diventa l’elemento centrale della vicenda, trasformando una storia grottesca in un attimo di toccante diversità.
Il film è dedicato alla memoria di Louise Michel, straordinaria figura di insegnante e anarchica francese, attivista per i diritti delle donne che fu anche esiliata in Oceania dalla corte marziale dopo aver partecipato alla Comune di Parigi. Il suo pensiero era rivolto a una società dove l’uguaglianza dei sessi fosse una certezza. Qualora questa uguaglianza non fosse una realtà, si deve lottare per averla. Così è per Louise…
Louise Michel ha vinto un Premio speciale della giuria per l’originalità del soggetto allo scorso Sundance Film Festival e il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di San Sebastian. In Francia il film ha ottenuto un successo straordinario, secondo nel 2008 solo aGiù al Nord. In una piccola parte anche Mathieu Kassovitz produttore del film.
Carlo Prevosti – cineblog.it

Ci facciamo un idea generale del Cinema di un paese e c'è sempre qualcuno che la “distrugge”. Nella nostra vita abbiamo visto centinaia di commedie francesi, più o meno belle, ma tutte trattate con una delicatezza che sembra propria di gran parte dei film che ci arrivano da quel paese. Adesso, sull'onda di un surrealismo lanciato tanti anni fa da Jeunet e Caro ci si mettono anche i festival nostrani a “distruggere” il nostro immaginario! Louise- Michel è un film straniante e grottesco ma, in tutta onestà, anche a farci a capire quanto le generalizzazioni di cui sopra siano sempre assolutamente ingiuste, è un mezzo capolavoro. Popolato di personaggi inverosimili, il film di Benoît Delépine e Gustave Kervern, propone una comicità cinica ma efficacissima. Sembra di vedere una combriccola ispirata dai Monty Python ma con caratteristiche assolutamente francesi. Si ride di grosso e allo stesso tempo si assiste ad un film incredibilmente originale. La storia di dieci operaie tessili che ingaggiano un killer per uccidere il “padrone” che gli ha fatto perdere il lavoro, potrebbe già essere, di suo, un'idea eccezionale, ma è il modo in cui questa storia si sviluppa che ha dell'incredibile. Scambi di ruoli (uomini che sono donne, donne che sono uomini), strani personaggi (malati terminali, ingegneri pazzi), paesaggi postatomici (periferie indefinite, baraccopoli) sono gli ingredienti di questa commedia che non fa neanche un po' di fatica a trovare il collegamento tra ciò che sembrerebbe impossibile poter collegare. Eccezionali gli attori (piccolo cameo anche per Kassovitz) che riescono a comunicare malgrado sia prevalente tra loro una sensibile mancanza di comunicazione e eccezionali i realizzatori che nonostante un'anarchia di fondo riescono a tenere magistralmente vivo il ritmo del racconto. Se aggiungiamo a tutto questo un senso politico che nel film appare e scompare lasciando continuamente tracce di visione post-marxista (se una ne esiste) abbiamo un film unico che si apre con uno strano funerale sulle note dell' “Internazionale” e si chiude in maniera altrettanto strana dopo i titoli di coda (mi raccomando rimanete in sala). E se ebbene irripetibile speriamo ce ne siano altri, in futuro, di film così, dove l'originalità va a braccetto con un senso del Cinema da autore navigato, e dove tutti gli elementi concorrono a costruire un opera assolutamente irresistibile. Da non perdere.
Renato Massaccesi -  FilmFilm.it
GRAN TORINO
U.S.A. – 2008 di Clint Eastwood
 

Con: Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her, Christopher Carley, John Antony, Austin Douglas Smith, John Carroll Lynch, William Hill, Brooke Chia Thao, Chee Thao, Choua Kue, Scott Eastwood, Xia Soua Chang, Cory Hardrict, Geraldine Hughes, Brian Haley, Dreama Walker, Brian Howe, Doua Moua, Sarah Neubauer, Nana Gbewonyo, Lee Mong Vang

Sulle ingiustizie e i doveri dei padri: un dramma che va oltre l'America
Come si può definire un film che si apre con un funerale e si chiude con un altro? Un osservatore superficiale potrebbe anche definirlo iettatorio, ma in realtà Gran Torino appartiene più correttamente alla categoria dei film «testamentari», quelli dove l'autore — qui il 78enne Clint Eastwood — ci lascia in eredità il suo messaggio «finale», il suo pensiero definitivo sulla vita e sulla morte. Meglio, su come comportarsi in vita e come affrontare la morte. Cioè, sul Bene e sul Male. Questa riflessione ha sempre attraverso le opere di Eastwood regista. L'azione, che in altre età della vita sembrava predominare su tutto, finiva però per riportare primo o poi il suo «eroe» ai temi centrali della responsabilità. E a volte del castigo se non della morte. Come condanna (al cattivo di turno) ma anche come estremo destino di sconfitta (Guarda il trailer). Come succede in Bird, in Un mondo perfetto, in Lettere da Iwo Jima... In Gran Torino, la riflessione di Eastwood prende un'andatura più zigzagante, a volte fin contraddittoria, come per riassumere tutte le diverse opzioni di una carriera che ha portato il suo regista a confrontarsi non solo con i limiti della vita, con le sue debolezze e le sue sconfitte, ma anche a farsene carico, ad assumerli (cristologicamente?) su di sé. Questo, almeno, fa Walt Kowalski (Eastwood), operaio in pensione dalla Ford, che vede il suo quartiere di Detroit spopolarsi di bianchi americani per lasciare il posto a ispanici e a un gruppo di invadenti «musi gialli» (in realtà «hmong», popolazione che non può più vivere nei territori d'origine, a cavallo tra Laos, Cambogia e Cina). All'inizio del film, però, durante il funerale della moglie, scopriamo che la rabbia di Kowalski si rivolge anche verso i membri della sua famiglia, i due figli Mitch e Steve da cui lo allontanano scelte di vita e gusti automobilistici (uno di loro commercia auto giapponesi, peccato più che mortale per un ex dipendente Ford), per non parlare dei nipoti vari, di cui disprezza praticamente ogni cosa, dall'abbigliamento all'indolenza. E senza preoccuparsi troppo di abbassare il tono quando fa le sue esternazioni.
Con una buona dose di autoironia, Eastwood/Kowalski si mette in scena nel meno compiaciuto dei modi, ringhioso e urticante, capace di prendere il fucile per allontanare chi osa invadere la sua proprietà privata e preoccupato solo di due cose: avere una scorta di birra fresca da bere in solitudine nella sua veranda e ammirare la sua Gran Torino Ford del 72, che ogni tanto tira fuori dal garage e lucida con maniacale pazienza.
Inevitabile che a un certo punto le rabbie e le recriminazioni di Kowalski comincino a vacillare, e proprio quando stanno per esplodere di fronte alla scoperta che il timido figlio dei vicini di casa, Thao (Bee Vang), sta tentando di rubare come «cerimonia» di iniziazione all'età adulta proprio la sua amata auto. A partire da questo momento, la rabbia si trasforma in disprezzo, poi in non belligeranza per diventare curiosità e infine protettivo spirito paterno. Anche per merito della sorella di Thao, Sue (Ahney Her), meno impacciata nel suo percorso di integrazione nella cultura americana.
Lo strano, o per lo meno l'insolito, in un film hollywoodiano è la libertà che sembra prendersi Eastwood, che a un certo momento dà l'impressione di «perdersi » in lunghe deviazioni apparentemente non essenziali. Si prende il tempo per raccontare alcune specificità antropologiche degli hmong, scherza con le differenze razziali (e razziste) delle varie anime americane (i duetti col barbiere italo-americano), allontana la minaccia che incombe sul film (il violento bullismo di una banda orientale che scorrazza nel quartiere) come se volesse far imboccare al film un'altra strada, quella di una commedia di costume un po' fuori dal tempo. E poi, all'improvviso, fa ripiombare lo spettatore di fronte alla violenza e alla crudeltà. Obbligandolo però a fare un passo ulteriore, che è quello dell'assunzione delle proprie responsabilità di fronte alle ingiustizie della vita. E chiudendo perfettamente il percorso che unisce questo film a Mystic River e Million Dollar Baby: la coscienza della responsabilità che i padri — veri o «putativi» poco importa — hanno verso i figli. E il carico di «debiti» morali da cui non possono certo liberarsi. Alla fine la storia riprende il suo percorso incalzante e sorprendente, che naturalmente lasciamo allo spettatore scoprire. Possiamo solo aggiungere che Eastwood lo fa con una assunzione di responsabilità inusitata anche per i suoi film, quasi fosse riuscito finalmente a fare i conti davvero con la morte che nelle sue ultime regie aveva sempre più invaso le avventure dei suoi non-eroi, finendo per assumere l'aspetto del convitato di pietra. E che Eastwood filma con la semplicità e l'immediatezza che hanno solo i grandi.
Paolo Mereghetti – cinema-tv.corriere.it