Into the wild
Nelle terre selvagge

USA 2007
di Sean Penn. Con Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Jena Malone, Brian Dierker, Catherine Keener, Vince Vaughn, Kristen Stewart.

E' delle terre selvagge che Sean Penn vuole parlarci in quest'ultima fatica, nuovo film di grande spessore della Bim, che riesce sempre a catturare piccoli e grandi capolavori da distribuire nelle sale del nostro paese. "Into the Wild" si apre appunto su terre selvagge, con immagini meravigliose di paesaggi sconfinati, entra nelle vene in maniera lenta, ma inesorabile, facendo infine scoprire l'anima, i suoi territori altrettanto incontrollati, imprevedibili. Penn scrive e dirige la storia di Christopher McCandless, adattando per il grande schermo il romanzo di Jon Kracauer “Nelle terra estreme”. Ed è così che prendono corpo i sentimenti e le diverse sensazioni di un ragazzo che, fresco di laurea, decide di abbandonare la vita agiata e andare all'avventura senza soldi, né compagnia in cerca di felicità e verità, convinto che ciò che più conta nella vita non è "essere forti, ma sentirsi forti, essersi misurati almeno una volta". L’intera vicenda è presentata attraverso una serie di flashback, divisi in capitoli: è chiaro che quello di Chris è un viaggio iniziatico, il cui epilogo è ben noto a molti. Il giovane nasce realmente nel momento in cui parte (capitolo I), il suo vagare in solitudine lascia intuire che è spinto oltre che dal gusto per l'ignoto, anche dalle ferite inferte dalla famiglia e da una società ipocrita, materialista e opprimente. Fin dalle prime immagini è percepibile l'idiosincrasia del protagonista nei confronti di chi, come la madre e il padre, vive solo di apparenze. È per questo che cambia il suo nome e diventa Alexander Supertramp. Con lo zaino in spalla Alex passa da un luogo all'altro e lascia un segno che solo le persone straordinarie possono regalare a chi le incontra. Scorre così l'adolescenza (capitolo II), mentre l'età adulta (capitolo III) si apre con la necessità di provare a tornare ancora una volta nella società dapprima rifiutata. Chris capisce allora di sentirsi realmente escluso nel profondo, perché non sopporta la violenza, la falsità e forse non riesce a fare i conti con il suo passato. Penn, dal suo canto, sembra dargli ragione opponendo al degrado della città la solennità di una natura, comunque e in ogni caso vincente nella sua grandezza. Mentre il protagonista legge "Il richiamo della foresta", la splendida fotografia di Eric Gautier incanta. Nel suo viaggio "l'eroe" conosce la famiglia (capitolo IV), incontrata per strada, più autentica ai suoi occhi di quella reale.
Infine la conquista della saggezza (capitolo V) chiude il cerchio, Alexander Supertramp ha capito che "dal bene viene il meglio" e che c'è ancora una parte d'umanità in grado di amare. Ma ormai non può tornare indietro, deve ancora mettersi alla prova, compiere l'avventura estrema, rimanere nuovamente solo, magari dentro un pulmino dal quale non uscirà più, ma che per sempre lo farà sognare.
Laura Calvo
www.ecodelcinema.com

Le domande ultime dell'esistenza sono poche e semplici. Nel proprio percorso, ognuno di noi si troverà suo malgrado a chiedersi cosa lo rende umano, da cosa ricava pienezza, di cosa ha bisogno. Tutto questo, da sempre, è determinato anche e forse soprattutto, fra il casuale ed il costretto, da qualcosa di fondamentalmente insondabile, un insieme di fattori genericamente racchiudibili in quel termine usato per comodità ma necessariamente indefinito: la società. L'individuo si scopre così in vario modo delimitato dai princìpi, dalle categorie e dai concetti portanti del luogo e del tempo che, da animale sociale, abita. Opposto a questi è un altro termine, sfuggevole stavolta perché da definire autonomamente, l'istinto, l'esser-per-sé in distanza dagli altri, essere libero e incondizionato nel cosa e nel come. Christopher McCandless (Emile Hirsch) si è dovuto (o si è voluto) porre queste domande, si è dato una risposta chiara, definitiva, e una meta. L'esser-per-sé è un ritorno all'antitesi sociale: la natura. Nella solitudine dei vasti spazi, vivere il momento fermo nella sua pura bellezza, e solo in esso trovare la propria semplice, immutabile compiutezza. Chris ha scelto l'Essere, la libertà. Più che di istinto, si potrebbe parlare al contrario di perfetta razionalità, per ricondurre ciò che è incomprensibile ad unità. È forse la società «razionale»? È davvero guidata da una «mano invisibile» per mezzo della quale tutto trova una sua giustificazione complessiva? O è forse un contratto, una convenzione che nonostante tutto mantiene immutato il caos, la barbarie dell'uomo-contro-uomo, un equilibrio fittizio? Della «società», elemento costitutivo, al di sopra del singolo, è la famiglia. Unità base fondamento stesso della socialità, primo gruppo intermedio fra l'individuo e il più ampio complesso di rapporti sovrastante. Forma primogenia, risalente ai tempi dei tempi, per definizione la basilare «società naturale». Ma dove finisce il suo essere «naturale» e inizia il suo essere «sociale», la sua costruzione ad hoc sulla base di definizioni variamente fabbricate? È questa la vera domanda che ha spinto Chris a lasciare i genitori (William Hurt e Marcia Gay Harden) e l'amata sorella (Jena Malone), appunto la domanda fondamentale sull'unità sociale fondamentale dalla quale, nel bene o nel male, tutto deriva. Quello che è successo nella sua famiglia, o meglio come la sua famiglia ha vissuto sin da quando era piccolo, ha trovato per lui finalmente una spiegazione, un segreto, che gliela rende insopportabile: scoprirsi non il frutto di un progetto consapevole e perfetto, naturale, ma risultato di un accidente, della distruzione di un altro nucleo famigliare, infine di qualcosa che è schiavo del tempo che scorre rivelando la supremazia delle cose sulle persone. In questo spazio si perde la definizione di sé, il vero Io è distrutto, si è quello (cose) che è altrove stabilito: una macchina nuova, i corsi cadenzati della vita (diploma, laurea, Harvard), l'orologio. Se tutto è sostanziale bugia, bisogna allora tornare all'unità che precede il sociale, alla simbiosi dell'Io con l'infinito, uno spazio attorno non contingentato da artificiosità di cose e persone, e dunque al pieno rapporto con sé. Chris così parte, semina tracce e le disperde, fa in modo di perdersi e non esser più trovato. La sua meta è l'Alaska, il Nord disabitato. Ma scegliendo il viaggio per scegliere la sua individualità, ha automaticamente creato inconsapevolmente uno iato fra quello che voleva raggiungere, l'essere fermi nella frontiera Nord per fermare il proprio Essere, il tempo, la vita, e quello che vivrà effettivamente, la molteplicità del mondo in cui tutto scorre. Nella testa di un figlio benestante degli anni '80 giunti alla loro fine, tempo di Bush padre dopo Reagan, un American Psycho post litteram proiettato negli anni '90, l'accidentalità da lui non voluta porterà inevitabilmente ad un lavoro da colletto bianco, una nuova famiglia, un'immagine vincente. Non si sa con quale reale senso, anzi si sa già che un senso non ci sarà. Ma in quest'immagine che Chris dà per scontata, quella che la «società» gli renderà impossibile rifiutare se non rifiuta per prima la società stessa, è postulata l'idea di un'altra immutabilità, quella della mancanza di scelta dentro la società. Questa scelta deriva dalla collisione dell'Io con altri Io, e attraverso l'incontro porta all'Essere vero, ossia l'essere che si forma lungo un tragitto non ancora scritto. Si può sapere chi si è senza avere un altro Essere di riferimento sul quale parametrare e misurare la propria umanità, nel cui sguardo riconoscersi? Chris in cuor suo è convinto di sì: nel viaggio incontra delle persone, ma il percorso verso la meta fissa non può esserne deviato, non può perdere la sua razionale progressione. Le persone sono accidenti, la natura è eterna. Vedrà fiumi, foreste, neve e deserti. Non sa ancora che quando sarà il momento di vedere quello che è davvero importante, questo sarà in lacrime e volti umani, quelli sui quali risplende la luce di Dio. Qualsiasi cosa Dio sia.
Alberto Di Felice
www.cine-zone.com

Rassegna Tempi Moderni


LE ROSE DEL DESERTO

Italia 2006
di Mario Monicelli.

Con Michele Placido, Giorgio Pasotti, Alessandro Haber, Fulvio Falzarano, Moran Atias, Tatti Sanguinetti.

L’ultimo film di Monicelli è uno sguardo disincantato sulla guerra, siamo nel 1940, in Libia, quella che allora era considerata una colonia italiana. Girato nel 2006 a 91 anni, la produzione volle un regista d’emergenza da affiancargli nella peggiore eventualità. E’ un addio dichiarato, dopo 65 regie e 58 sceneggiature. LE ROSE DEL DESERTO è ispirato al romanzo autobiografico de Il Deserto Della Libia di Mario Tobino (lo stesso dal quale Dino Risi una ventina d'anni prima aveva tratto il film Scemo di guerra), che riporta Monicelli alle sue personali vicende vissute in Abissinia, ricordi trasposti con poesia e amarezza.

Questo vuol essere il nostro modo per ricordare e omaggiare il grande regista e l’uomo, che ha saputo vivere e morire a modo suo.

Cineclub Fata Morgana

Una doverosa premessa: dovevamo aspettare un “grande vecchio” come Mario Monicelli per poter finalmente respirare un’aria di cinema diversa dalla solita minestra riscaldata dell’attuale produzione italiana, a base di commediole o filmetti aspiranti ad essere d’autore.
Il maestro della commedia agrodolce dirige infatti, alla veneranda età di 92 anni, un film lucido ed ironico che illustra uno stralcio della Storia del nostro paese attraverso quella di piccoli uomini impegnati, durante la Seconda Guerra Mondiale, sul fronte della Libia.

LE ROSE DEL DESERTO, che prende il titolo dalle rocce levigate dal vento fino ad assumere una forma simile appunto a quella delle rose, racconta la vita di un equipe di medici italiani che attendono feriti dal fronte allestendo un ospedale da campo. Il tempo scorre lentamente ed, in particolare, vediamo un giovane medico (Giorgio Pasotti) incuriosito dai luoghi e dalla gente locale mentre il suo maggiore (Alessandro Haber) è concentrato unicamente a scrivere lettere d’amore alla moglie lontana e (forse) infedele; il resto dei soldati inganna il tempo ascoltando messaggi dal comando con la radio malfunzionante e tentando di stringere rapporti con la popolazione locale schiva e sospettosa. Tra i medici arriverà poi un sagace prete domenicano (Michele Placido) il quale, da anni in Libia, si occupa dei bambini e di dare l’estrema unzione ai moribondi. Attraverso gli occhi dei protagonisti assisteremo alla disfatta dell’esercito italiano e tedesco contro le forze inglesi, con i medici ed infermieri costretti a ripiegare e tornare, purtroppo anche drammaticamente, a casa.

LE ROSE DEL DESERTO racconta con grazia ed ironia piccoli episodi di vita, sia militare che umana, attraverso la quotidianità di un piccolo agglomerato di persone che attende la guerra giorno per giorno. Monicelli mescola le vicende belliche con quelle dei vari protagonisti, affidati all’interpretazione di un cast di attori –famosi e non- molto in forma, con caratterizzazioni naturali e moderate: è un piacere, ad esempio, vedere un Michele Placido spiritoso ed incisivo che recita senza andare sopra le righe come spesso fa, oppure un Giorgio Pasotti più maturo rispetto ai suoi precedenti film sebbene abbia un tono ancora incerto della voce; discorso diverso invece per Alessandro Haber che interpreta un personaggio volutamente caricaturale e, sebbene simpatico, un pò fuori posto nella dimensione narrativa del film.
Monicelli riserva diverse e piacevoli sorprese al suo pubblico: il regista non rinuncia alla sua vena di lucida ironia caustica ed antimilitarista illustrando gli sforzi e le difficoltà dei soldati semplici, con i problemi quotidiani di essere su un fronte straniero, confrontati invece alle figure dei loro ufficiali (colonnelli e generali) che si rivelano gente inetta ed inaffidabile. Degno di plauso, da questo punto di vista, il macchiettistico ritratto di un generale stupido, borioso ed irresponsabile (titolare anche di un buffo tormentone “motociclistico”) interpretato efficacemente dal critico Tatti Sanguinetti, tramite il quale Monicelli espone la sua opinione a
riguardo di una guerra ridicola e di un esercito italiano da operetta con uomini mandati a morire in maniera futile.

Nonostante i pesanti problemi di budget che si palesano con scenografie approssimative, è evidente che il film sia stato realizzato con uno sforzo produttivo rilevante (ed anche raro per il nostro attuale cinema), massimizzando le risorse disponibili e mostrando diversi mezzi bellici d’epoca e paesaggi bellissimi, con riprese effettuate tutte in esterni (e non in teatri di posa) nel suggestivo deserto tunisino.
Concludendo (anche per le dolenti note, lasciate alla fine), LE ROSE DEL DESERTO è una pellicola gradevole e ben interpretata, che diverte e fa pensare, ma ci dispiace anche dire che Monicelli non graffia più come una volta ed il suo film si rivela un po’ vago, finendo per lasciare poco nello spettatore dopo la sua visione: le cause sono diverse e vanno da un tono narrativo troppo leggero ad una sceneggiatura senza un punto di vista ben focalizzato, da un finale nonché un paio di sviluppi precipitosi (forse per problemi di budget) fino ad alcuni concetti non espressi in maniera marcata.

Paolo Pugliese – occhisulcinema.it