The Hurt Locker

di Kathryn Bigelow. USA 2008

Con Jeremy Renner, Anthony Mackie, Guy Pearce, Ralph Fiennes, Brian Geraghty. David Morse, Christian Camargo, Evangeline Lilly.

Ci voleva una storia di guerra e di coraggio, di adrenalina e di corpi dilaniati, di orrori quotidiani e di paradossale assuefazione a quegli stessi orrori, perché una donna vincesse finalmente l’Oscar per la miglior regia e il miglior film, trascinandosi dietro per giunta altre quattro statuette, e non solo minori. Ci voleva una regista che “gira come un uomo”, come si dice con slogan un po’ macho dai tempi del memorabile Point Break, e un film che racconta la guerra in Iraq da un punto di vista così inedito e controverso che The Hurt Locker ha incassato appena venti milioni di dollari in tutto il mondo (132.000 euro in Italia), perché la statuetta finisse in mani femminili (detta oggi sembra incredibile, ma il mondo ha visto prima un presidente nero degli Stati Uniti che una regista premiata con l’Oscar).

Ma ci voleva anche un sistema di voto nuovo per spingere gli Oscar, da qualche anno ormai sempre meno “hollywoodiani” e sempre più vicini ai gusti dei grandi festival come Cannes e Venezia, a fare una scelta così coraggiosa. A danno fra l’altro di un concorrente come Avatar, che non è solo un megacampione d’incassi ma è anche un bellissimo film.
Da quando i titoli candidati come miglior film sono passati a dieci, infatti, i circa 6000 votanti dell’Academy non si limitano più a scrivere sulla scheda il loro preferito ma elencano tutti e dieci i titoli in ordine di preferenza. Sicché, alla fine di un complesso gioco di conteggi, il prescelto paradossalmente può essere non il film che ha ricevuto più preferenze al primo posto, ma il più massicciamente votato in seconda o terza posizione. Un sistema complicato ma probabilmente più democratico che potrebbe aver favorito l’outsider Kathryn Bigelow. Mentre le 10 candidature hanno rilanciato l’interesse su questo premio famosissimo e ormai un po’ polveroso aprendo la porta a film “piccoli” ma meno scontati come District 9, An Education o, per l’appunto, The Hurt Locker.

Che poi il primo trionfo “al femminile” nella storia degli Oscar coincidesse con il duello fra due registi che una volta erano marito e moglie, sembra l’invenzione di uno sceneggiatore della vecchia guardia (per non parlare del fatto che in buona parte del mondo la notizia è arrivata l’8 marzo..). Ma gli Oscar del 2010 non passeranno alla storia solo per il loro risvolto rosa. Il 2010 è anche l’anno che vede finalmente affermarsi Jeff Bridges, alla sua quinta candidatura, e pazienza se forse George Clooney in Tra le nuvole era ancora più bravo. È l’anno che sconvolge tutti i pronostici escludendo capolavori come Il nastro bianco di Michael Haneke o Un prophète di Jacques Audiard per dare la statuetta del miglior titolo straniero a un film argentino poco noto.

Ed è, per finire, l’anno che premia, inevitabilmente, il magnifico Up della Pixar.

Lasciando nell’ombra un film ancora più sofisticato e irresistibile, presto in uscita anche in Italia, cioè Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, il regista dei Tenenbaum e del Treno per il Darjeeling (e già il fatto che uno dei migliori registi di oggi passi dal cinema “live” a una favola con pupazzi ci dice quanto sia libero, vitale e creativo il cinema d’animazione di questi anni). L’America di questi anni sta cambiando, o almeno ci prova. Gli Oscar, se non Hollywood, sono già cambiati.

Fabio Ferzetti

(Il Messaggero, 9 marzo 2010)


Nel finale di The Hurt Locker si alza il tono metaforico: il civile inginocchiato e il sergente James sono entrambi uomini-bomba. L’uno a livello materiale, l’altro ideale; ormai lo si è capito, James non può vivere senza disinnescare. Il film di Kathryn Bigelow è un ordigno bifronte, da una parte la detonazione immediata e dall’altra un denso polverone figurato. Più che le sovrapposizioni narrative (come la netta “sostituzione del figlio” con un bimbo iracheno), a risultare decisivi sono gli accostamenti visivi; in cerca del contatto diretto con il rischio, James si fa precedere dal lancio di un fumogeno bianco che sprigiona esattamente la stessa nebbia dell’esplosione: vuole anticiparsi, implicitamente già desidera il boato che otterrà nel finale. Il medesimo trattamento di inconsce proiezioni è applicato a ogni personaggio: Elridge, marchiato dalla morte del superiore, è afflitto dall’atavico timore di fare la stessa fine; Sanborn si autoinganna e solo infine ammette l’aspirazione alla paternità. In generale, The Hurt Locker è durissimo da vedere – sequenze thriller e tensione insopportabile: i primi dieci minuti ci scoppiano addosso, graniti di terra e imperlati di sangue – e ancora più duro da raccontare, perché punta forte sulle affermazioni negative; oltre alla tripartizione dei protagonisti, davvero di scarsa importanza (uno è ferito, l’altro torna a casa, il terzo sceglie la guerra), bisogna dunque ascoltare ciò che viene taciuto: l’origine delle cicatrici di James, la sua ostinazione paradossale sulle sorti di uno sconosciuto, il grigiore privato di Sanborn appena celato dai modi di circostanza (“Se muoio non se ne accorge nessuno”). E soprattutto l’ultimo dialogo: la riflessione sull’indole deviata del sergente è una contro-scena madre, dato che i soldati si interrogano a lungo, azzardano ipotesi e non trovano risposta. “Non ci penso”, dice James: la regista ha sfrattato il messaggio dall’Iraq in fiamme, tutti restano segnati solo dall’aderenza al pericolo che prima avevano respinto. Ovvero, come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba.

Emanuele Di Nicola

(gli spietati.it)

Rassegna Tempi Moderni