Dieci inverni
Italia 2009, di Valerio Mieli


Con Isabella Ragonese, Michele Riondino, Liuba Zaizeva, Sergei Zigunov, Sergei Nikonenko, Alice Torrioni, Vinicio Capossela, Glen Blackhall, Sara Lazzaro, Francesco Brandi, Luca Avagliano, Francesca Cuttica Roberto Nobile.

"Dieci inverni è la storia di due ragazzi che non riuscendo ad amarsi subito devono imparare a farlo, destreggiandosi tra le difficoltà di diventare adulti. Per raccontare questa storia d'amore volevo una forma di romanticismo che fosse vera e fiabesca insieme. Per questo ho scelto di ambientare il film un una città poetica come Venezia, ma mostrandone il volto più quotidiano dei mercati, dei bàcari e dei vaporetti. In tutte le fasi della lavorazione, dalla scrittura al lavoro con gli attori, fino a quello sulla musica, la mia preoccupazione principale è stata di mantenere quest'equilibrio tra realismo e levità". Così Valerio Mieli presenta il suo primo film. Dopo essersi diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia il giovane regista approda al grande schermo con un progetto nato tra le aule del CSC e prodotto completamente entro i suoi confini. Ed indubbiamente ci troviamo davanti ad un esordio ben riuscito. La sua è la narrazione del prologo di un amore portato avanti per quadri fotografici, con un susseguirsi di istantanee rubate dalla vita di due ragazzi simili eppure così distanti. Lo spettatore si muove in maniera intermittente all'interno delle loro giornate senza mai soffermarsi abbastanza da poter assaporare la fine dell'inverno, senza mai veder sorgere il sole sulla laguna veneziana. Non sappiamo cosa davvero accada a Camilla e Silvestro nel momento in cui non li spiamo, possiamo solo immaginarlo dalle conseguenze proposte dalla scena successiva. Un modo di raccontare una storia originale e dal particolare impatto emotivo: non istruendo un pubblico onnisciente, il regista mostra solo ciò che vuole far vedere, sottolineando cosa per lui è davvero importante, ponendo l'accento sul momento esatto in cui i meccanismi scattano e la vicenda prosegue. Così ci si ritrova a vedere come fondamentali eventi che contrariamente ci sarebbero sembrati di importanza secondaria: il portarsi insieme ai bagagli un oggetto ingombrante ma che ci da sicurezza come una lampada o un alberello, o il simbolismo conferito a delle lumache che segnano i primi anni del rapporto tra i due protagonisti. Quella tra Camilla e Silvestro è una storia d'amore che passa attraverso l'inverno, dieci esattamente, stagione normalmente nota per la sua rigidità, per il freddo che congela qualsiasi cosa, anche sentimenti e comportamenti. Un vivere ibernati all'interno di una propria concezione che viene costantemente sottolineato dalla fotografia di Marco Onorato (Fortapàsc) che, spostandosi tra Venezia e Mosca, ritrae una storia apparentemente fredda dove i protagonisti, piuttosto che i colori, sono i sentimenti, posti in continuo equilibrio dinamico.
La luce calda, come uno spiraglio di speranza, appare solo in momenti ben oculati, quando le barriere che sembrano intrappolare Camilla e Silvestro, finalmente esplodono. A dare vita a Dieci inverni c'è anche un cast giovane che vede a capo Isabella Ragonese (Oggi sposi, Il cosmo sul comò) e Michele Riondino (Il passato è una terra straniera), entrambi in buona sintonia con i proprio ruoli, affrontati in modo delicato e mai sopra le linee. Attori che crescono con il passare del tempo filmico e maturano sia nelle espressioni che nei gesti, naturali anche quando sono più inclini alla fiaba che alla realtà. Il progetto è insomma una miscela ben dosata di esperienza tecnica ed emozioni, una storia ben raccontata anche grazie alle suggestive atmosfere musicali create da Francesco de Luca ed Alessandro Forti. Durante il matrimonio di Liuba fa la sua comparsa anche un insolito invitato (Vinicio Capossela) che, con la sua "Parla Piano", regala un momento intenso e piacevole. Antonella Murolo - everyeye.it (...) toccante e non retorico film di Valerio Mieli (...). Il film, anche se ogni tanto con qualche peccato veniale di carineria, ci vendica delle molestie dei film teenager monumenti di falsità modaiola. Questa, fra nebbie e nevi, è una mini love story continuamente interrotta, che diventa grande se lo spettatore ci soffia dentro qualcosa di suo (...) Maurizio Porro – Corriere della sera (...) una commedia sentimentale credibile intorno a un "luogo" dell'amore dai margini non ben definiti. (...) Dario Zonta – L’Unità Un film dolce e malinconico (...). Ruffiano come è un po’ per tutti i racconti che hanno per protagonisti i giovani, Dieci inverni lo è però con una grazia priva di malizia e di furberia. Stenio Solinas – Il Giornale (...) una commedia sentimentale che, più che italiana, sembra francese grazie a una sceneggiatura quasi perfetta e a due attori magnifici che si portano sulle spalle il film: Isabella Ragonese e Michele Riondino (...). Un'opera delicata e minimale, neorealismo del nuovo millennio (...). E' questo il cinema italiano che vogliamo vedere. Andrea Morandi - CIAK Un buon inizio, questo del neoregista Valerio Mieli. Racconta di Camilla e Silvestro, due matricole fuori sede che s’incontrano la prima volta a bordo di un vaporetto deserto immerso nelle nebbie invernali veneziane. Caso vuole che, pur essendo subito chiara la scintilla contraddittoria dell'attrarsi e del respingersi, i due ragazzi passino la notte insieme senza toccarsi. È l'inizio di un percorso decennale, lungo il quale le dolorose conferme del non sapersi prendere si accompagnano al loro diventare adulti, uomo e donna. Tono deciso, finezza di tocco, atmosfera un po' fuori dal mondo e dal tempo, capacità di portare avanti una storia dove non accade quasi nulla.
Paolo D’Agostini – La Repubblica
Il profeta
(Un Prophète) Francia-Italia 2009
di Jacques Audiard.

Con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi., Jean-Philippe Ricci, Gilles Cohen, Antoine Basler, Leïla Bekhti, Pierre Leccia, Foued Nassah, Jean-Emmanuel Pagni, Frédéric Graziani, Slimane Dazi, Rabah Loucif.


Bildungspolar concentrazionario

Come Sure inesorabili di un Corano criminale, capitoli introdotti da perentorie didascalie (Reyeb, Ryad, les yeux les oreilles...) scandiscono l'impaginazione narrativa di Un Prophète, quinto lungometraggio del figlio d'arte Jacques Audiard, auteur che si sporca le mani con gli ingranaggi del polar fin dal suo primo titolo (Regarde les hommes tomber, 1994). Le due linee guida lungo le quali si muove l'opera del cinquantasettenne cineasta parigino sono un'estetica cinematografica poderosamente sensoriale e una predilezione per vicende umane sconvolte dalla rivelazione di un’inclinazione nascosta. Il già citato noir d'esordio e i successivi Un héros très discret (1996), Sulle mie labbra (2001) e Tutti i battiti del mio cuore (2005) raccontano sostanzialmente la stessa storia: quella di individui che, messi con le spalle al muro da eventi e circostanze fortuite, scoprono o esaltano un talento sconosciuto o sopito. La rivelazione è devastante: da quel momento la loro vita non potrà più essere la stessa. Dopo il traballante De battre mon coeur s'est arrêté - penalizzato dal confronto con l'originale (Fingers, 1978, di James Toback) e irrigidito dalla presenza di Romain Duris (platealmente inadeguato nella parte che fu di Harvey Keitel) - Audiard firma con Un Prophète il suo lavoro più imponente e compiuto. Imponente per durata (155’) e portata allegorica (il carcere come riproduzione in scala di un’intera società); compiuto poiché parabola individuale, quadro d'insieme e tensione drammatica armonizzano perfettamente tra loro per dare vita a un’opera di esemplare durezza e feroce umanismo. Compattezza è la parola chiave: Malik (un Tahar Rahim impressionante) è totalmente assimilato alla prigione, non c'è un prima (se non una vaga allusione al riformatorio) né un dopo (se non un’ipotetica reintegrazione familiare) nella sua esistenza, solo un presente di detenzione, regime talmente interiorizzato da coinvolgere nelle sue dinamiche anche l'esterno, dove vigono le stesse leggi di corruzione, coercizione e punizione che regolano il codice della taule (“la gattabuia”).
La galère non è circoscritta alle mura della “Centrale” di Brécourt ma è ovunque, come Ryad (Adel Bencherif) scrive a Malik dal mondo senza sbarre apparenti. Uno stato mentale. Incipit: particolare delle mani ammanettate di Malik. Finale: il suo primo piano a tutto schermo. Un Prophète mette in scena la costruzione di un soggetto strutturato a partire dai suoi frammenti fisici. Dalle mani al volto, passando per una bocca che nasconde una lametta (l’eliminazione di Reyeb), occhi e orecchie prestati alla mala corsa (incarnata dal boss César Luciani, un Niels Arestrup titanico) e piedi nudi che calpestano i segni tracciati sul pavimento delle perquisizioni (il rientro in carcere dopo il primo permesso giornaliero). Un percorso di formazione che tuttavia necessita del simbolico, della parola per attuarsi. Il linguaggio, da sempre fattore di conflitto in Audiard, si fa autentico campo di battaglia e paradossale principio di identità: assimilando e commutando in continuazione francese (le lezioni di grammatica in prigione), còrso (la frequentazione della fazione Luciani) e arabo (l’ultima visione di Reyeb, vera e propria esortazione alla recita), Malik si affranca dalla sudditanza psicologica dell’autorità per affermarsi quale soggetto autonomo e simbolicamente libero - la sordità temporanea nell’imboscata a Marcaggi segna la definitiva rottura con la ricezione degli ordini impartiti dall’alto. In questo processo di costruzione identitaria Malik si scopre visionario (il talento nascosto): le apparizioni fantasmatiche di Reyeb transitano da incubi di colpevolezza a fiamme di consapevolezza. Dato l’ultimo giro di vite nell’interiorità del suo assassino, Reyeb (Hichem Yacoubi) scompare definitivamente lasciando a Malik un’eredità di sangue e scrittura, un piroettante ciclo di crescita: “uscire di qui un po’ meno stupidi di quando si è entrati”. Un Prophète si smarca così dal generico e convenzionale duello di caratteri (il temibile e carismatico boss contro il novellino che si fa strada) per imporsi come la circostanziata e singolare formazione di una coscienza totalmente impregnata di logiche criminali. Il film di Audiard si sbarazza degli stereotipi psicologistici per divenire analisi di una volontà che non ha altri strumenti formativi se non quelli messi a disposizione dal contesto: astuzia, simulazione, camaleontismo, calcolo. E sempre in questo senso si fa riflessione universale sulle modalità di adattamento e sopravvivenza in un microcosmo che riflette spaventosamente i reali rapporti di potere (razzismo, prevaricazione, corruzione e sfruttamento non sono forse le regole che, dissimulate e ingentilite, governano la società civile?). Macchina a mano sensibile come uno stetoscopio (una Aaton 35 III), Audiard gira con una misura semplicemente miracolosa: mai un’inquadratura giudicante, mai un eccesso didascalico, mai una forzatura patetica. Immersi nell’universo concentrazionario di Brécourt, assistiamo all’odissea di Malik senza un attimo di tregua, senza avvertire il tempo che passa, attraversando il cambio di valuta dai franchi all’euro quale unica testimonianza di un mutamento esterno che tuttavia non ha altro significato che quantificare la trasformazione interna del protagonista. Al montaggio di Juliette Welfling (da sempre alla moviola di Audiard) il compito di stabilire percorsi (est)etici sovraordinati, al di sopra del flusso tumultuoso e travolgente di eventi che segnano indelebilmente la coscienza di Malik come dello spettatore. Cinema morale se mai ve n’è stato uno. Grand Prix della Giuria al 62º Festival di Cannes, vincitore di ben nove premi César e candidato all'Oscar come miglior film straniero. Velo pietoso sull'incorreggibile vezzo dei distributori italiani che anche stavolta storpiano il titolo originale determinando l'articolo: Un Prophète diventa Il Profeta, con uno sgradevole retrogusto criptoxenofobo.

Alessandro Baratti – spietati.it
Welcome
(id.) Francia 2009 di Philippe Lioret .

Con Vincent Lindon, Firat Ayverdi, Audrey Dana, Derya Ayverdi, Thierry Godard, Selim Akgül, Firat Celik, Murat Subasi, Olivier Rabourdin, Yannick Renier, Mouafaq Rushdie, Behi Djanati Ataï.

La denuncia è tanto intensa quanto taciuta. Welcome vive di respiri trattenuti, telefonate segrete, emozioni costrette. E’ la clandestinità della sofferenza, relegata nel più intimo silenzio, la chiave con cui Lioret affronta il tema dell’immigrazione. In una Calais tetra e tremendamente gelida, un mare d’acqua domina la profondità di campo, si affianca al sogno di Bilal, ne predispone la sfida, ma il tutto rimane così illusorio, una via di fuga che già dal principio presagisce il fallimento. Se ci rivolgiamo al nostro entroterra invece, trionfa la costrizione, ideologica, sociopatica, spaziale. Gli interni si sorreggono su una messa in scena rigida e chiusa, l’antitesi, purtroppo veritiera, allo sconfinato grigiore dell’acqua che si estende verso quella tanto amata terra promessa. Non avendo più sogni sui quali aggrapparsi, l’Occidente, quello che ha ancora qualcosa di umano dentro, quello di Simon, vive dei rimpianti, degli effetti della propria espiazione. Riaprirsi all’altro, soffermarsi sulle colpe nella speranza di una redenzione, è l’unica chiave per cercare un riscatto. Da una parte l’incoscienza di un amore desiderato, dall’altra la lenta presa di coscienza che questo amore ormai se n’è andato. Se Simon si avvicina dapprima a Bilal per far bella figura nei confronti dell’ex-moglie (una volontaria nel campo), la sua intenzione piano piano acquisisce una connotazione più profonda. Attraverso il giovane si riaccende anche la speranza di fare pace con se stessi, perché sebbene Simon sappia di non poter cancellare il passato (emergono lentamente i tratti di un uomo irascibile e violento), vede in Mina un modo per darsi pace. Lioret impagina un dramma con una forte identità. Certo, le digressioni divulgative, che sembrano scemare in situazioni tipiche, ci sono, come a voler ricordare la denuncia di fondo. L’autorità indifferente e spietata, il vicino di casa inacidito e pregiudizievole, il direttore del supermarket intollerante e razzista, e giù di lì, tutte “macchiette” che manifestano d’improvviso, ciò che è reso latente in tutto il resto del discorso.
Quello che conta però è la trasparenza e solidità con la quale il regista tiene in considerazione il suo spettatore. Il messaggio arriva, è reso limpido, fruibile, non facendosi mancare allo stesso tempo delle rime interne poetiche: l’intima e silenziosa solitudine della realtà in opposizione all’assordante ribalta del sogno (guardate la funzione disturbante della televisione), il rovesciamento simbolico del valore dell’acqua, la sottrazione negli affetti (in un clima di profonda sofferenza, l’unico a piangere è il personaggio più indifeso, Mina). E’ un cinema che sa il suo perché, corretto ed educativo, in cui persino qualche enfasi “di troppo” (Cristiano Ronaldo, ancora giocatore del Man Utd e idolo di Bilal, punta il dito al cielo dopo una rete) trova una sua legittima collocazione.Noi, pensando ad opere simili nel nostro panorama filmico, ci guardiamo intorno
Marco Compiani – spietati.it

Il giovane diciassettenne iracheno Bilal (Ayverdi), dopo aver attraversato l'Europa da clandestino è fermo nel nord della Francia e non riesce a raggiungere la sua ragazza da poco emigrata in Gran Bretagna, perché non può attraversare la Manica. L'ultimo tratto, da Calais a Dover, definito la frontiera messicana d'Europa, è invalicabile per i clandestini a causa dei severissimi controlli. Per caso conosce Simon (Lindon), un istruttore di nuoto, con cui inizia ad allenarsi per un obiettivo apparentemente folle: attraversare la Manica a nuoto. Dal Festival di Berlino, dove il film è stato presentato, il regista ha affermato: “Ho provato da subito una grande attrazione verso questo soggetto, dedicato a uomini in fuga dai propri paesi d’origine e determinati a raggiungere quell’Eldorado che l’Inghilterra rappresenta ai loro occhi. Dopo un viaggio improbabile, essi si trovano bloccati a Calais – frustrati, maltrattati e umiliati – a pochi chilometri dalla costa inglese, che riescono persino a vedere in lontananza. Parlandone una sera con lo sceneggiatore Olivier Adam, ho capito come quel posto fosse la nostra “frontiera messicana” e che sarebbe bastato scavare un po’ per ricavarne una storia di grande impatto drammatico”. Una storia di amicizia tra due persone diversissime, un ragazzo curdo pieno di speranze ed un adulto francese cinico e depresso, che imparano a conoscersi ed a rispettarsi in un mondo che fa di tutto per dividerli. E questa è la seconda lettura del film, quella politica, di un drammatico ed attualissimo road movie attraverso un'Europa irriconoscibile e feroce, dove il diritto di esistere viene negato sistematicamente ai clandestini. Sullo sfondo 'troneggiano' le nuove disposizioni legislative anti-clandestini, volute dal Presidente Sarkozy - molto simili al reato di clandestinità varato dal Governo Berlusconi - che rendono di fatto impossibile la permanenza anche in suolo francese di un extracomunitario senza permesso. Accolto con quindici minuti di applausi alla sezione Panorama del Festival di Berlino 2009, il film ha ottenuto il Premio del Pubblico, il Premio Label Europa Cinemas e il Premio della Giuria Ecumenica.
Primissima.it


Affetti e dispetti
(La nana) Cile, Messico 2009
di Sebastiàn Silva .
Con Catalina Saavedra, Claudia Celedòn, Mariana Loyola, Alejandro Goic, Anita Reeves, Delfina Guzmàn, Andrea Garcia-Huidobro, Mercedes Villanueva, Augustin Silva.


Tra cinema e realtà
Lo sguardo su un'esistenza vissuta all'interna di un microcosmo troppo piccolo per poter garantire quanto necessario a una stabilità psicologica ed emotiva. Un personaggio ostico, odioso, con il quale è difficile entrare in sintonia nonostante la conoscenza del suo passato da semi-reclusa volontaria, e i cui comportamenti sono tutto fuorchè condivisibili, mettendo anche a rischio la salute di altre persone, colpevoli solo di esser viste come una minaccia dalla sua psiche instabile. Sebastian Silva è bravo nel trasportarci in questa vicenda di insoddisfazione maturata dal tempo e dagli eventi, senza scadere in una facile retorica ma mostrando crudemente e senza sconti come l'astrazione sociale possa deformare il carattere di una persona, rendendola più simile a una bestia che a un essere umano. Ma Raquel non è monocromatica, e quando arriva l'occasione di scoprire cos'è realmente la vita, dopo che le sono stati aperti gli occhi dalla sua ultima "rivale", comprende l'inutilità di quanto svolto fino ad allora, finendo per guardare il mondo con un altro sguardo. Girato quasi interamente in questa enorme casa e nello spazio ad esso confinante (se si esclude il breve excursus ospedaliero), con uno stile minimale, che concentra tutto sui volti e gli sguardi, sulle emozioni provate dai protagonisti di questa vicenda torbida che affonda le sue radici nel reale. Ottima la prova della nana Raquel, interpretata da un'algida Catalina Saadreva (già al lavoro con il regista nel suo film d'esordio), tra le migliori attrici del panorama cileno. Il comparto tecnico è un mero optional, e non eccelle in nessun campo, da una fotografia limitata dalla claustrofobia dei luoghi (girato all'interno di una vera casa, quindi con spazi limitati) e tendente a colori cupi e freddi, alla colonna sonora praticamente inesistente. Ma d'altronde lo scopo era ben altro, e quindi uno stile quasi documentaristico non può che giovare a una produzione lontana dallo spettacolo e più vicina al senso stesso di un racconto morale. Molti dopo aver letto queste righe, se mai ne avranno avuto la voglia, dimenticheranno presto queste parole e la pellicola, ma chi invece volesse darle un'occasione difficilmente rimarrà deluso.
Maurizio Encari - everyeye.it

Già segnalato dall’ottimo Federico Pontiggia, nel suo post del 25 giugno, vale la pena di tornare a parlare del film cileno di Sebastian Silva Affetti e dispetti anche in riferimento alla riflessione sulla “tenuta” pulita ma non eccelsa dell’annata cinematografica che, invece, segnalavo nel mio post intitolato Un anno difficile. Affetti e dispetti è – ben venga – un film molto interessante.
Perchè mischia con libertà stili e visioni, andando oltre al già detto.
Il film racconta l’esistenza di Raquel (la bravissima Catalina Saavedra), domestica quarantenne in una ricca casa cilena. La nostra da oltre vent’anni presta servizio. E in questi vent’anni si è totalmente annullata nel ligio rapporto con la famiglia dei suoi padroni. C’è la moglie che, paternalisticamente, le “vuole bene”. Ci sono i figli, con cui ha relazioni altalenanti e spesso conflittuali. C’è il marito di cui custodisce volentieri qualche piccolo segreto. Ma Raquel non ha altro: si ripete di essere amata dai bambini, cerca la propria unicità nell’essere depositaria di tutti i segreti della casa. Ma in realtà è disperata e il fisico inizia a “protestare”. Nella dialettica hegeliana, il rapporto servo/padrone, a un certo punto si ribalta. Ergo: Raquel dovrebbe diventare dominante. Ma Silva non è per niente convinto che le cose stiano così. Perché ne ha viste tante, più di Hegel. Semplicemente, infatti, Raquel è esaurita. E la “sua” famiglia pensa bene di affiancarle un’altra domestica. Raquel però non vuole essere usurpata di quel poco che (crede) essere suo. Di quel piccolo regno fatto di aspirapolveri, sicurezza nel trovare una maglietta, automatica soddisfazione dei gesti. La lotta di classe è morta. Silva lo dice con ironia, raffinatezza. Ma lo dice chiaramente. Al massimo oggi i servi possono trovare la propria ora d’aria ed essere contenti così. Perché la dialettica (poi marxista) non è la logica attraverso cui i servi interiorizzano la propria esistenza. Affetti e dispetti è davvero un film molto interessante. Molto acuto, molto intelligente. È girato quasi totalmente in interni, con uno stile che può richiamare il famoso Dogma ma soprattutto il Lars von Trier de The kingdom e Idioti. Musiche zero e solo da fonti sonore diegetiche, fotografia piuttosto sgranata, tagli fintamente naturali, primi piani improvvisi e intensi. Mentre, per cattiveria, nella prima parte il film ricorda il primo Ferreri, quello de El cochecito. Il lavoro di Silva, strada facendo, depista molto lo spettatore. Perché la “svolta finale” è un (finto?) lieto fine con cui beffardamente il regista mette la pietra tombale sulla rivolta degli schiavi. Raquel non è neppure parente ideale de la Sandrine Bonnaire di Il buio nella mente. Chabrol e compagnia bella sono gente d’altri tempi. Oggi la serva si identifica al massimo con una serva un po’ meno oppressa di lei. E impara così a non a ribellarsi all’indegna ipocrisia che una volta si sarebbe detta “borghese”. Si impara a convivere con la frustrazione. A “gestire l’ansia” si potrebbe dire. La lotta di classe è stata seppellita dall’idea che, in fondo, si possono trovare i propri spazi. Ma è una prospettiva vera o è la vittoria del più forte? Non è forse la verità dei padroni (e dagli schiavi introiettata)?
Affetti e dispetti è l’ideale seguito del film di Chabrol, 15 anni dopo. Anni cruciali. Per la globalizzazione che ha reso tutti “self made man”, gioiosamente felici di mettere la propria vita sul mercato. E anni cruciali anche per il Cile del dopo Pinochet. Così, insomma, anziché pensare che esistano gli oppressori e gli oppressi, ora una domestica può prendere il buon esempio non da una folle incendiaria (come Isabelle Huppert ne Il buio nella mente) ma da una serva divenuta liberta e continuare, così, a fare la schiava sorridendo. Crudele, questo Silva. Non si può neppure più sognare la ribellione. (Un consiglio: guardate questo film pensando anche a Pomigliano…).
Elisa Battistini (blog) – ilfattoquotidiano.it

Calendario proiezioni Ottobre/Novembre/Dicembre 2011

Ottobre 2011

Giovedì 6 ottobre 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale

Affetti e dispetti
(La nana) di Sebastian Silva
Cile, Messico 2009
Rassegna: Mimosa forever



Martedì 18 ottobre 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale

Welcome di Philippe Lioret
Francia 2009
Rassegna: Migrazioni

Novembre 2011

Mercoledì 2 novembre 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale

Dieci inverni di Valerio Mieli
Italia, Russia 2009
Rassegna: Tempi Moderni


Martedì 22 novembre 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale

Il profeta
(Un propheta) di Jacques Audiard
Francia, Italia 2009
Rassegna: Tempi Moderni

Dicembre 2011

Venerdì 2 dicembre 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale
I segreto dei suoi occhi
(El Secreto de Sus Ojos) di Juan Josè Campanella
Argentina, Spagna 2009
Rassegna: Tempi moderni


Martedì 20 dicembre 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
Parnassus- l'uomo che voleva ingannare il diavolo
(The Imaginarium of Doctor Parnassus) di Terry Gilliam
Francia, Canada 2009
Rassegna: Sogni

CHE – Guerriglia
(Che – Part Two)
USA, Francia, Spagna 2008

di Steven Sodebergh .


Con Benicio Del Toro, Demian Bichir, Santiago Cabrera, Elvira Mìnguez, Julia Ormond, Rodrigo Santoro, Ramón Fernández, Yul Vazquez, Jose Caro, Jsu Garcia, Marisé Alvarez, Franka Potente, Catalina Sandino Moreno


In questo secondo capitolo della storia del Che, Steven Soderbegh fa un salto di ben 8 anni: dal 1958 con la presa di Cuba si passa direttamente al 1966, anno in cui il Che, all’apice del suo potere, scompare misteriosamente dalla scena internazionale per poi ricomparire in incognito in Bolivia, dove organizza un piccolo gruppo di compagni cubani e reclute boliviane, destinati a dare inizio alla grande rivoluzione latino-americana che lo porterà alla sconfitta e inevitabilmente alla morte. Nel primo capitolo era evidente l’accento posto sulla forza e sul trionfo della lotta organizzata e comandata dall’alto da Fidel Castro e egregiamente diretta dal Che, che riuscì a rendere Cuba libera dalla dittatura di Batista, grazie anche ad un forte consenso popolare. La guerriglia era sempre più consapevole del fatto che sarebbe riuscita a raggiungere l’obiettivo desiderato. Nella seconda parte invece quella forza e quell’entusiasmo presente nella presa di Cuba, viene a perdersi. Nella realtà dei fatti il mancato consenso popolare e l’appoggio inesistente di Castro e del partito finirono per rendere la guerriglia un semplice e piccolo gruppo disorganizzato. Per tradurre meglio il chiaro senso di fallimento a cui questa spedizione stava man mano andando incontro, il regista si è servito di alcuni escamotage molto validi: dialoghi pressoché inesistenti, una presa diretta in vero stile documentaristico, senza alcuna musica di sottofondo e fatta perlopiù in ambienti scuri e poco luminosi così da creare immagini dai colori più freddi. Benicio del Toro ha saputo interpretare con estrema cura i caratteri distinguibili del Che, riportandolo nei panni di un Uomo, non più icona abusata spesso dalla società in maniera inappropriata. In queste vesti il Che torna ad essere un semplice essere umano, dotato di forte personalità e di profondi ideali, umile con i propri compagni, leale con i nemici e orgoglioso delle sue azioni fino alla fine, anche in punto di morte.


Silvia Caputi – ecodelcinema.com
Novembre 1966…

Ernesto Che Guevara, allora Ministro per l’Industria a Cuba e all’apice della sua carriera politica, decide di lasciare l’isola dei mojito nella convinzione di esportare l’esempio della rivoluzione cubana anche in altri paesi del Sud America oppressi dalla dittatura. Dopo l’insuccesso ottenuto in Congo, organizzato un piccolo gruppo di compagni cubani e nonostante il parere dubbioso del leader maximo, Fidel Castro, decide di partire alla volta della Bolivia. Sin dall’inizio della campagna molte sono le difficoltà che il Comandante si trova a dover affrontare: il partito comunista boliviano si divide e finisce col non dare alla rivoluzione il sostegno promesso, il gruppo di guerriglieri si trova presto isolato, senza cibo e rifornimenti, incapace di reclutare consensi e sostegno da parte dei contadini e della popolazione locale, che anzi finirà col sostenere l’esercito e la polizia boliviana. In poco meno di un anno il campo di addestramento verrà scoperto. L’8 ottobre 1967, vittima di un agguato, Guevara sarà catturato a La Higuera. I generali boliviani decideranno di giustiziarlo il giorno dopo, non senza un accurato servizio fotografico che contribuirà ulteriormente, negli anni a venire, a costruire quell’immagine di eroe rivoluzionario che lo ha consacrato al mondo intero. Dopo Che – L’Argentino, arriva sugli schermi il secondo lungometraggio incentrato sulla rivoluzione boliviana e che completa un disegno preciso e puntuale del Comandante, frutto di diversi anni di lavoro da parte di tutto lo staff di Soderbergh. Dopo aver intravisto l’evoluzione di Guevara, da medico e semplice sostenitore della rivoluzione a comandante carismatico e indiscusso, il quadro si completa mostrando ancora di più la vera anima dell’argentino, mossa da nessun tipo di rivalsa di potere ma solo dallo spirito idealista e libertario, che lo ha reso al contempo vittima ed eroe. In questa seconda parte scompaiono i flash-back e il flash-forward in bianco e nero e prevale l’uso del colore. Lo spettatore ha quasi l’impressione di trovarsi trascinato nel pieno della giungla, grazie anche ad una fotografia più cupa, dovuta all'utilizzo quasi esclusivo di illuminazione naturale e una regia veloce e rapida, realizzata con l’innovativa macchina digitale RED - già utilizzata nella prima parte - che, attraverso i suoi 4 chili e mezzo, garantisce la stessa resa del 35 mm e la qualità del digitale puro. Trattandosi di un biopic piuttosto preciso e scevro da alcun tipo di faziosità o interpretazione, l’intero film ha già in sé quel senso di sconfitta e morte che la Bolivia lascerà al Comandante. Dopo la gloria e i colori delle case coloniali di Cuba, qui vediamo pioggia, malattie, morti e l’incapacità del popolo e anche dello stesso esercito, di credere e affezionarsi fino in fondo a questa lotta. La rivoluzione e gli ideali lasciano presto il posto all’amara sconfitta, e si chiude con gli ultimi istanti di vita del comandante, esanime, a terra, forse inconsapevole della futura memoria che lo renderà sconfitto nel campo ma vincitore nell’immaginario collettivo. L’ultimo sguardo che Soderbergh vuole lasciarci è forse quello che permane in molti: il guerrigliero che, alla volta di Cuba, guarda con speranza e fiducia l’orizzonte di un futuro imponente e smisurato, allora ancora sconosciuto.


Daniela Silvestri - Silenzio-in-sala.com
Racconto di Natale
(Un conte de Noel) Francia 2008

di Arnaud Desplechin.

Con Catherine Deneuve, Jean-Paul Roussillon, Mathieu Amalric, Emile Berling, Françoise Bertin.

I (ri)sentimenti
I motivi per amare il cinema di Desplechin sono gli stessi per i quali esso è denigrato e osteggiato da molti: cinema che non si risparmia, tutto di testa anche quando pare di stomaco, che si parla addosso, che straborda, impuro perché si impregna di tutto (televisione, letteratura, filosofia, storia, teatro – c'è anche del bergmaniano in questo -), cinema ombelicale ed egocentrico, cinema che è pieno di "troppo" (troppo parlato, troppo pensato, troppo prolisso), cinema compiaciuto, spudorato, che mette in piazza i meccanismi, cinema che non esita a citare, evocare, riecheggiare, che forza la linea stilistica tracciata e la piega all'esigenza della narrazione. Perché Desplechin è soprattutto lo strenuo sostenitore di un lavoro che è narrativo fino all'integralismo, introspettivo fino allo psicologico (scansando, senza sfiorarlo, lo psicologismo), strutturalmente libero, frammentario spesso e volentieri, pieno di deviazioni, sfasature, strane imprecisioni (La sentinelle) certo, ma mai gratuito, sempre perfettamente conscio di sé; un cinema intimo, apparentemente caotico, invero quadratissimo che, pur analizzando e rappresentando stati d'animo e sentimenti, non sfiora neanche per sbaglio la compassione e non crea facili complicità con lo spettatore (la recitazione stilizzata di Esther Kahn)…. In Conte de Noël (un titolo dickensiano, dunque romanzesco) si torna alla famiglia, consesso sfrangiato visto (è abitudine dell'autore) come una sorta di finzione sociale nella quale ci si affanna a trovare "compatibilità" - in questo caso fisico-biologica prima che (u)morale: la questione si rivelerà non meno capricciosa (il destino lo è) -; distanti dal sentimentalismo comodo di tanto cinema (anche transalpino) o dall'automatica, retorica cattiveria dei fratelli-coltelli, dalla scontata dinamica del nido di serpi, i Vuillard offrono allo spettatore le proprie interiora nude e crude(li), si scoprono e si scontrano senza alcun filtro: il potere possente del legame familiare è proprio quello di polverizzare le inibizioni e portare a galla l'Io più recondito, rendere la nevrosi una normale modalità di rapportarsi; solo in famiglia si dicono e fanno cose che suonerebbero eccessive, esagerate, assurde in qualsiasi altro contesto e non sorprende dunque che, nella rappresentazione del francese, ci si trovi di fronte a una madre che detesta apertamente il proprio figlio, partorito per puro calcolo; inutile allo scopo all'epoca, in seguito Henri si rivela inaspettatamente decisivo per la stessa sopravvivenza di Junon, anche se troppa acredine è passata, troppo radicata è l'insofferenza perché la salvezza della propria vita possa riscattarlo agli occhi della donna. E anche per Henri la donazione del midollo è vista quasi come un cinico sdebitarsi: ti do la vita come tu l'hai data a me, pari siamo. Ancora una volta l'armonia tra i personaggi è un percorso in salita, l'ipotetico obiettivo finale; ancora una volta l'intesa non è data in partenza, si parte dalla frantumazione e si tende ad un'unità possibile. Le relazioni tra le persone sono una materia dannatamente complicata e divengono astruse nel salotto borghese dei Vuillard, dove non si dice "papà" e non si dice "mamma"; dove la morte di un figlio si accetta come la caduta di una foglia da un albero; dove la nonna ha avuto una stabile relazione lesbica; dove l'ultimogenito Ivan rivede nella psicosi del nipote Paul quella della sua adolescenza; dove il rancore è il sentimento principe; dove vita e morte sono eventi svuotati di implicazioni umane, ridotti a probabilità su una lavagna, crocifissi a un freddo calcolo; dove i nipotini già "proiettano" in ingenue rappresentazioni teatrali nelle quali amleticamente ci si riconosce: la dea Junon al centro della piccola platea, come la sovrana di questo microregno (non dimentichiamoci i nomi dei quattro figli: Joseph, Elizabeth, Henri, Ivan – i re, la regina); in cui è tutto un riverberarsi di malesseri e livori, veri e propri intrighi di corte, appena mediati da un rimpianto, in un cumulo di eventi fatali e di ruggini riflesse che sfiora il demenziale, ma che non per questo risulta meno lancinante, meno scorticante, meno esattamente doloroso. Su tutto questo affanno vigila non solo l'occhio del testimone Faunia (nome della protagonista de La macchia umana di Roth - a La controvita di Roth sarà ispirato il prossimo film del regista -), ma anche quello di Elizabeth, che soffre più di tutti, pare, e che più di tutti sembra patire la solitudine del dolore, tanto da volervi trascinare qualcuno pur di non dirsi sola in quella palude, e che non esita a fare letteratura di questo suo dibattersi. Anche Desplechin non esita a mettere in gioco se stesso e il suo vissuto in quello che si sta rivelando un unico grande romanzo cinematografico, un opus sempre più compatto che racconta la vita (e l'arte) attraverso tantissime parole e tantissimi atti di personaggi vivi, concreti, non di archetipi, per quanto i riferimenti leggibili possano farlo pensare: i caratteri che si muovono sulla scena non sono metafore, sono uomini e donne nudi, senza la protezione di alcun paradigma; solo in questo senso possiamo dirci d'accordo: il cinema di Desplechin può essere fastidioso, provocare disagio; è un cinema che disturba perché ci strappa le vesti di dosso e ci obbliga all'imbarazzo di constatare e far constatare ciò che siamo (l'attore, volendo "far credere", deve mentire o dire la verità? Il paradosso di cui parla il vecchio pigmalione impersonato da Ian Holm in Esther Kahn in cui la protagonista, alla fine, diventando una vera donna diventa una vera attrice)….. …… Questo senza stare a sottolineare quanto magnificamente sia girato questo Conte de Noël (la macchina da presa è nelle mani del solito Eric Gautier), con quale sottigliezza sia scritto, con quale piglio siano diretti gli attori (una squadra fantastica – cito la Devos per tutti, che trovo sempre di bravura inqualificabile -). Desplechin, mai così concentrato e misurato (sì, proprio), forse meno spericolato del solito, sfiora il virtuosismo, firma un nuovo capolavoro.

Luca Pacilio www.spietati.it
CHE – L’argentino
(Che – Part One)

USA, Francia, Spagna 2008
di Steven Sodebergh

Con Benicio Del Toro, Demian Bichir, Santiago Cabrera, Elvira Mìnguez, Julia Ormond, Rodrigo Santoro, Ramón Fernández, Yul Vazquez, Jose Caro, Jsu Garcia, Marisé Alvarez, Franka Potente, Catalina Sandino Moreno.


“No soy un libertador. Los libertadores non existen. Son los pueblos quienes se liberan a si mismos » Si può raccontare la vita di Ernesto Guevara senza fare i conti con il mito del «Che»? La sfida sembrerebbe impossibile: anche un film come I diari della motocicletta, che ne raccontava la giovinezza argentina, non riusciva a tenere a freno la contagiosa esuberanza del protagonista. Affrontando invece i due momenti cruciali della vita di Guevara, la rivoluzione cubana prima e la guerriglia in Bolivia poi in un mega-film di oltre quattro ore che esce in due parti (adesso Che-L'argentino e a maggio Che-Guerriglia), il regista Steven Soderbergh sembra essersi fatto guidare soprattutto dalla voglia di raffreddare la materia e di affrontare con gli strumenti della ragione quello che di solito si racconta con l'entusiasmo del militante. Caldeggiato fortemente dall'attore Benicio Del Toro (che si cala nei panni di Guevara con sorprendente rassomiglianza) e dalla produttrice Laura Bickford, il progetto del film ha cominciato a prendere forma più di dieci anni fa, nel 1996, ma è diventato qualche cosa di concreto solo nel 2005, dopo che la sceneggiatura è stata affidata a Peter Buchman. È dal suo lavoro e da quello di Soderbergh che nasce l'idea di privilegiare due soli momenti di tutta la lunga e avventurosa vita del «Che» giocando continuamente al contrappunto: Cuba contro Bolivia ma anche, all'interno della prima parte, teoria contro azione, utopia contro (dura) realtà, rivoluzione contro (o a fianco di) politica. Questa operazione non è evidentemente senza conseguenze: da una parte permette al film di avere un andamento il meno hollywoodiano possibile, lontanissimo dall'epicità finto-romantica con cui il cinema americano ha spesso raccontato rivoluzioni e rivoluzionari (basterebbe pensare all'orrendo Che! di Fleischer con Omar Sharif nei panni di Guevara). E dall'altra offre al film la possibilità di «distaccarsi» dalla materia raccontata per trasformare la storia in strumento di (auto)riflessione, recuperando certi insegnamenti godardiani sull'intreccio tra finzione cinematografica e inchiesta giornalistica (non a caso Questa è la mia vita era uno dei modelli a cui Soderbergh si è ispirato). Ecco perché Che-L'argentino gioca molto col montaggio, perdendo di vista lo svolgimento cronologico delle azioni e invece giustapponendo momenti della visita del «Che» alle Nazioni Unite nel 1964 a episodi della guerriglia sulla Sierra Maestra cubana del 1957/58 a momenti addirittura precedenti, come l'incontro tra Guevara e Fidel Castro in Messico nel 1955. In questo modo frasi e dichiarazioni più «programmatiche» (come erano le risposte ai giornalisti americani o i punti salienti del suo discorso all'Onu contro l'imperialismo e la sudditanza degli Stati sudamericani) trovano un riscontro immediato con le scelte concrete fatte durante la guerra rivoluzionaria, anche loro mostrate non per la loro forza epica ma piuttosto per quello che possono «insegnare» e «dimostrare». Così fa una certa impressione sentir dire a una giornalista newyorkese che la prima qualità di un rivoluzionario è «l'amore» e subito dopo vedere la decisione di abbandonare un compagno alle sevizie dei soldati di Batista pur di non farsi scoprire, scelta che si spiega solo capendo che quell'«amore» non va inteso in senso cristiano ma rivoluzionario, perché il sacrificio di un militante giustifica la possibilità della sopravvivenza del gruppo. O ancora, prima dell'attacco alla caserma di El Ulvero, il discorso sulla inevitabile vittoria dei rivoluzionari di fronte ai mercenari che sembra essere contraddetto dai morti che i ribelli lasciano sul campo ma che finisce per essere avvalorato dalla conquista della postazione. Ogni scena, cioè, prende valore per quello che spiega e insegna sul percorso rivoluzionario e non per la forza emotiva che può avere. È per questo che il film andrebbe visto nella sua interezza di quattro ore, perché la seconda parte funziona da contrappunto alla prima e molte scene della prima rimandano alla seconda o trovano lì la loro «conclusione» (come il discorso sui sedicenne che a Cuba non possono partecipare alla rivoluzione e in Bolivia sì, salvo poi scoprire che i primi si riveleranno dei veri rivoluzionari e i secondi tradiranno). Ma la distribuzione ha leggi che a volte vanno contro a quelle dei film e in questo modo Che-L'argentino finisce per pagare delle colpe che non sono del tutto sue. Nella sua unità/complessità sarebbe stato più chiaro il percorso di Soderbergh. Così invece si rischia di accentuare troppo una scelta di stile che sembra solo «contro» (contro il mito del «Che» ma anche contro l'epicità troppo programmatica di certo cinema hollywoodiano) e meno «a favore» (di un soggetto indubbiamente originale e lontano dalle mode).

Paolo Mereghetti – Corriere della Sera.it

La vìe en rose
(La Mome) Francia, GB, Rep. Ceca Italia 2007
di Olivier Dahan.
Con Marion Cotillard, Silvie Testud, Jean-Paul Rouve, Pascal Greggory, Marc Barbé, Emanuelle Seigner, Gerard Depardieu, Catherine Allégret.

Un ritratto libero e non didascalico della cantante francese Edith Piaf
La pellicola, ambientata in Francia e a Praga, ripercorre i drammi e le gioie di una delle leggende della canzone francese e internazionale, Edith Piaf. Nata nei sobborghi parigini, la diva diventa famosissima fin da giovane. La sua voce, caratterizzata da mille sfumature, era in grado di passare da toni aspri a toni dolcissimi. Molte le sfortune e i fatti negativi: incidenti stradali, coma epatici, interventi chirurgici, delirium tremens e anche un tentativo di suicidio. La pellicola di Dahan ricostruisce bene una delle sue ultime apparizioni pubbliche in cui appare piccola e ricurva, con le mani deformate dall'artrite e con radi capelli. Solo una cosa era rimasta inalterata e splendida: la sua voce. Il fatto che il regista abbia preso come spunto iniziale per il film una fotografia della cantante e non la sua musica non ci sorprende affatto. Conferma, anzi, il taglio pienamente cinematografico dell’opera. Partire da questo punto è sinonimo di un omaggio che rifiuta il didascalismo e una ricostruzione strettamente biopic. Il termine corretto è ritratto che, oltre a esaltare il talento artistico della Piaf, si addentra nel cuore della sua complessa umanità. Il regista, pur documentandosi a lungo, ha preferito seguire le proprie idee senza farsi influenzare da qualcuno in particolare (amici, conoscenti) o da letture intraprese. La scelta di evitare il taglio biografico si sviluppa attraverso un doppio binario. L’ottima interpretazione di Marion Cotillard che fugge qualsiasi tentativo imitatorio e nasconde, sottilmente, il preciso intento di dare alla performance stessa una vita sua, lontana da condizionamenti o costruzioni esterne. In secondo luogo, il regista, consapevole di riduttive letture critiche, ripercorre alcuni dei fatti principali della sua esistenza senza rispettare l’esatta cronologia. Ogni frammento di vita sembra giustificarsi grazie a quello precedente. Il senso delle cose prende quota piano piano lavorando di addendi. Le molteplici facce della diva emergono con una soave naturalezza rendendo facile e scorrevole la lunga visione del film.
Matteo Signa- mymovies.it

Esistono storie e storie di vita di grandi personaggi della storia dell’umanità. Come esistono storie di vita di artisti che si possono considerare universali per la loro unicità di forza umana che sanno o hanno saputo trasmettere attraverso il loro talento artistico. Quella forza sublime che solo l’arte e l’artista contengono, e la cui interpretazione sempre e continuamente riesce a scuotere le coscienze,
a parlare direttamente all’anima. C’era una volta una bambina, nata agli inizi del secolo scorso e secondo la leggenda partorita in un portone, costretta ad una vita misera e nella miseria. I suoi grandi occhi blu guardavano quella piccola parte di mondo della Belleville parigina, i vicoli malfamati, i marciapiedi dove, per soldi, esibiva le sue naturali doti canore. Le grandi voci non passano inosservate, a maggior ragione quando il canto cattura l’attenzione dei passanti per strada. E così per Edith Gassion (Marion Cotillard), l’incontro per strada con Louis Leplèe (Gerard Depardieu), folgorato dalla sua voce, segna un momento di rottura con un passato squallido ed umiliante, per dare inizio pian piano alla trasformazione di Edith Gassion nel personaggio della “Môme”: Edith Piaf. La voce della Piaf presto arriva oltre oceano. Conquista l’America quella donnina fragile, piena di forza interiore, di amore, di passione. Con la sua voce rabbiosa, ma nel contempo emozionante e commovente, canta la vita, l’amore, la speranza. Canta Edith Piaf! Canta per il suo pubblico, per la gente che l’aspetta in platea con trepidazione, anche quando la vita non le risparmia dispiaceri terribili, non la risparmia dalla malattia, dall’insopportabile dolore fisico. Chi era veramente “la Môme”? Cosa sappiamo della Piaf persona, leggenda nazionale della Francia ma anche del mondo intero? Cosa ha permesso veramente a questa donna goffa, impacciata, di sopravvivere e alla fine uscire dalla povertà e dalla sofferenza dei sordidi quartieri del dopo guerra parigino, fino alla conquista di quel riconoscimento di un messaggio di arte vera, inebriante, sul palcoscenico internazionale? La risposta questa volta la dà il regista di questo film straordinario: Oliver Dahan. Senza riproporre storicamente la vita di una Parigi inizio secolo, Dahan costruisce i luoghi dell’epoca attraverso una propria sensibilità, riuscendo a catturare un proprio sguardo nella costruzione della narrazione. La riuscita dell’opera è sorprendente. Dahan entra in quel mondo parigino animato dalle strade incorniciate di Belleville, dai bordelli da cui fuoriesce l’acre odore di sudore umano. Con un’articolarsi nel montaggio di avvenimenti spazio-temporali della vita di Edith Piaf, Dahan coglie quel lato di vita dell’artista Piaf, sconosciuto al grande pubblico, dove momenti drammatici si alternano a momenti felici e di successo. Oliver Dahan costruisce così l’identità della grande artista, un’identità di gloria e successo, ma anche di vita comune, che ritrae una Piaf malandata, fragile, distrutta dalla malattia, che acquistava forza e vita nel momento in cui con il canto comunicava con il mondo. Senza dubbio, l’acutezza nella scelta di Oliver Dahan di aver saputo coordinare nella narrazione momenti chiave della vita dell’artista Piaf, ha dato al film la particolarità di un’opera compiuta nella sua interezza. Il film si veste, con classe, di tensione emozionale, e mette in scena con arte il destino paradossale di questa donna, la cui voce ha scosso e procura, nell’ascolto, sensazioni forti. Marion Cotillard, nella performance della Piaf è assolutamente sconvolgente. Interpreta la camminata, la mimica dei gesti dell’artista, come lei era solita, ossia in maniera quasi clownesca. L’interpretazione della Piaf conferisce a Marion Cotillard la capacità sublime di trascendere il personaggio, ed “essere” Edith Piaf. Questa è l’impressione che la Cotillard riesce a trasmettere, in un modo così convincente che non si può dire che non sia la Piaf, rivelandosi un’attrice di grande e ragguardevole talento. “La vie en rose” è un film magico, da cui traspare l’anima dell’artista Piaf, attraverso lo sguardo sensibile di Oliver Dahan, che, con questo ultimo lavoro, dimostra come si rende l’arte sul grande schermo. Di grande efficacia la colonna sonora, che ripropone con la voce della stessa Piaf, suoi brani intramontabili da Padam alla Vie en rose. Un film ricco di tensione ed emozione molto bel gestite nella narrazione, senza tuttavia cadere in un facile e scarno sentimentalismo.
Rosalinda Gaudiano – cinema4stelle.it
MARZO 2011

lunedì 7 marzo 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale

La vìe en rose
(La Mome) di Olivier Dahan
Fra, GB, Rep. Ceca 2007
Rassegna: Mimosa forever



martedì 22 marzo 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
CHE –L’argentino
(CHE- Part One) di Steven Sodebergh
USA, FRA, SPA 2008
Rassegna: Tempi Moderni


APRILE 2011

lunedì 4 aprile 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale

Racconto di Natale
(Un conte de Noel) di Arnaud Desplechin, Francia 2008
Rassegna: Tempi Moderni

giovedì 21 aprile 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
CHE – Guerriglia
(CHE- Part Two) di Steven Sodebergh
USA, FRA, SPA 2008
Rassegna: Tempi Moderni
Basta che funzioni
(Whatever works)
di Woody Allen.

USA, Francia 2009

Con Ed Begley jr., Patricia Clarkson, Larry David, Conleth Hill, Michael McKean, Ewan Rachel Wood, Henry Cavill, John Gallagher jr, Jessica Hetch, Carolyn McCormick.
Ad un anno di distanza da Vicky Cristina Barcelona, Woody Allen torna sugli schermi con la regia di Whatever Works (BASTA CHE FUNZIONI) ed è sempre un piacere per gli spettatori. Torna a New York, con una sceneggiatura vecchia di oltre 30 anni – così dichiara lui stesso – scritta per l’attore Zero Mostel (brillante interprete di The Front – IL PRESTANOME del ‘76), morto nel 1977. Occhio e croce, tuttavia, ritengo Larry David più adatto al ruolo di alter-ego di Woody Allen, di quanto sarebbe stato il pur bravo Zero Mostel.
E ciò rivela ancora una volta l’abilità del regista nella scelta degli attori, giacché il film poggia, oltre che sul personaggio femminile di Melodie, quasi per intero sulla figura tragicomica di Boris Yellnikoff (perfetta sintesi di Woody Allen-Larry David campioni di umorismo yiddish), docente universitario a riposo riciclatosi come insegnante di scacchi che, con buona dose di cinismo mascherato d’ironia, giudica l’esistenza con lo stile del Woody Allen intellettuale di Manhattan (1979).
Con la differenza che sono passati trent’anni e la vita dell’uomo nel pianeta appare al protagonista l’eterno scacco matto di “una specie fallita” ad opera di un Dio assente o al massimo “arredatore di interni”. Rispetto ad allora, c’è in meno forse la curiosità di vivere, ci sono in più le tematiche care al Woody Allen degli ultimi anni: il ruolo potente del fato, della fortuna e del caso.
In tale contesto, la sceneggiatura sembra meno ispirarsi ad una storia pensata da oltre trent’anni e più vicina al filone inaugurato con Mighty Aphrodite (LA DEA DELL’AMORE del ’95), approfondito magistralmente dieci anni più tardi nei 124 minuti di Match Point, continuato, forse con minore efficacia, nelle tre successive pellicole: Scoop (2006), Vicky Cristina Barcelona (2008) e questo Whatever Works, accomunate tra loro dalla durata minima per un lungometraggio e soprattutto dall’esilità della trama.
C’è tuttavia una differenza in Whatever Works rispetto ai due precedenti lavori. Non solo, infatti, si torna a New York, cioè ad un habitat che il regista ben conosce, si torna anche alla freschezza di Mighty Aphrodite e al teatro greco.

I temi del destino, della fortuna, dell’amore e del caso vengono trasposti in una cornice che nulla lascia all’improvvisazione.
Chi, vedendo la Melodie (Evan Rachel Wood) di Basta che funzioni non pensa subito alla Linda Hash in arte Judy Orgasm (Mira Sorvino) di La dea dell’amore, nella versione italiana l’una e l’altra doppiate con straordinaria efficacia dalla voce di Ilaria Stagni?
Prostituta l’una (Judy), ingenua fanciulla del sud degli Stati Uniti l’altra (Melodie), entrambe accomunate da una visione semplice e innocente (nonostante tutto) del vivere e destinate a raccogliere il premio finale (o quasi) della fortuna e dell’amore, secondo un concetto caro all’ultimo Woody Allen: “Non sappiamo perché siamo al mondo e persino la nascita è legata al caso.
Tutto ciò che può rendere più accettabile l’esistenza della persona è benvenuto. Basta che funzioni”.
Nelle due pellicole, questa sorta di filosofia del carpe diem, segue uno schema quasi identico. Tutto si annuncia in un clima di tragedia greca per volgersi in commedia, quasi che un benevolo burattinaio, un occulto deus ex machina, a certe condizioni, s’incarichi di garantire alla “specie fallita” un minimo di felicità.
E se nel film del ’95 il finale sembra più l’antefatto di una commedia di Plauto, allorché i due protagonisti s’incontrano dopo tanto tempo – ignaro Larry che la figlia di Linda è sua figlia, ignara Linda che il bambino allevato da Larry è il figlio che aveva abbandonato – in Basta che funzioni il finale è costellato di festose maschere plautine con Boris nel ruolo (così come fa per tutto il film) di colui che di tanto in tanto si separa dagli attori per intrattenersi col pubblico, con battute che a rifletterle appaiono scontate (come quella che Marx e Gesù hanno ragione in via di principio, ma anche il torto di trascurare che l’uomo, una sorta di vermetto nel migliore dei casi, non è buono…), ma che ad udirle, per l’efficacia e la semplicità con cui sono dette, arrivano allo spettatore come altrettante pillole di saggezza.
Ed è proprio la seconda parte del nuovo film di Woody Allen, tutta intesa a preparare il finale, a zoppicare. Non solo per un calo di ritmo e di stile, ma anche e soprattutto per aver il regista attinto a piene mani dal bagaglio dell’ovvio e della post-modernità, quasi un tributo da pagare alla facile psicologia dei cosiddetti vermetti: il padre e la madre di Melodie che le diverse circostanze mutano da bigotti di provincia in spregiudicati e appagati fruitori della propria libertà, consentendo a Marietta (Patricia Clarckson) di mettere a nudo, per così dire, il proprio talento fotografico assaporando insieme le delizie di un ménage à trois, e al marito di scoprirsi felicemente gay. Melodie e Boris, dal canto loro, per gli intrighi di Marietta e il disegno improbabile della Fortuna e del Caso, tornano ad una normalità che li rende improvvisamente meno interessanti, ma con la possibilità, se tutto funziona, di percorrere un maggiore tratto di felicità.
Film, comunque, da non perdere perché opera di uno, forse, degli ultimi grandi maestri del Cinema.

Sergio Magaldi (dal blog: http://zibaldone-sergio.blogspot.com/ )
Open hearts
(Esker dig for evigt) Danimarca 2002
di Susanne Bier.
Con Sonja Richter, Nikolaj Lie Kaas, Mads Mikkelsen, Paprika Stehen, Stine Bjerregaard, Niels Olsen, Ulf Pilgaard, Ronnie Hiort Lorenzen, Pelle Bang Sorensen.


Dramma in dogma
Susanne Bier prende le mosse dal Dogma95 di Von Trier e Vinterberg; cosa ne resta dieci anni dopo la sua stesura? Il manifesto danese (riprese dal vero, niente scenografia, camera a mano, nessun suono riprodotto, illuminazione naturale, formato 35 mm), che nasceva come autentica provocazione contro il frasario imbalsamato del cinema alimentare – imporsi delle regole “assurde” per dimostrare che non esistono regole -, si è gradualmente ridotto, passo dopo passo, ad una sterile questione di principio oltranzista ed autocelebrativa (la successiva ed inconcludente circumnavigazione della Kidman in DOGVILLE, con camera in spalla a 360°, la dirà lunga sull’argomento), non priva di vezzi compiaciuti ma esteticamente fallimentari (la parodia involontaria di DANCER IN THE DARK).
Nella signora Bier, quindi, non riponevamo particolari speranze; eppure... aggirando la strada parabolico/morale, il film si accontenta (per così dire) di raccontare, facendo dell’intreccio stesso la sua chiave di volta senza secondo fine; nella delicata scelta della materia drammatica (con un’eco da LE ONDE DEL DESTINO) OPEN HEARTS riesce a non esagerare, districandosi in equilibrio su quel filo sottile che lo mantiene credibile e compatto sino in fondo.
Coniugando uno sguardo chirurgico (riflesso nello sfondo ospedaliero) alla virata calda e passionale (i diversi incontri amorosi), e presentando questo elementare contrasto allo spettatore senza filtro – quindi particolarmente toccante -, è un’opera viva e pulsante tanto da farsi perdonare le evidenti imperfezioni; la Bier sbaglia almeno un carattere (la figlia di Niels, intorno alla macchietta) e costruisce una manciata di snodi risaputi (tra tutti: le scene-madre piene di omissis e sospensioni, a rischio schematismo), nel gioco delle coppie non attinge certo da un bacino originale ma d’altronde lo ravviva con un gusto personale ed estremo, che non teme il tratteggio di una “strana” rivalità sentimentale (l’aitante medico ed il paralitico).
Il dato tecnico, forse di maggior interesse, è anche quello più sorprendente; indugiando con la camera a mano su corpi ed espressioni dei protagonisti, scavando patologicamente nei loro lineamenti, la Bier riporta un senso al cadavere del Dogma e ne propone una visione personale (nonostante qualche gratuità), fino ad estrarre almeno una sequenza d’impatto commovente (l’abbraccio “posticcio” tra Joachim e Cecille).

La migliore intuizione della regista si incarna però nelle repentine svolte oniriche che suggellano il narrato, preziose perché quasi impercettibili, che per un attimo annullano il colmo di dolore e, dopo la tragedia, consentono ad una mano paralizzata di librarsi nell’aria, ancora.
Non ci sono parole per Sonja Richter, diamante in un cast di solidità inusitata.
Un film irrinunciabile per sapere che la Danimarca oggi non è solo Lars Von Trier. Per fortuna.
Emanuele Di Nicola – spietati.it

Dogma 95 (Dogme 95) è il nome di un movimento cinematografico creato e fondato su precise regole espresse in un manifesto pubblicato nel 1995 (da cui il nome) dai registi danesi Lars von Trier, Thomas Vinterberg, quindi corrente non nata ed evoluta spontaneamente come nella maggior parte dei casi nella storia del cinema.
Il decalogo, al quale aderirono subito anche Søren Kragh-Jacobsen e Kristian Levring, è spesso definito anche con il significativo nome di Voto di Castità, che lascia intendere lo spirito del movimento, ed è stato stilato e firmato ufficialmente a Copenaghen, lunedì 13 marzo 1995.
L'obiettivo, ambizioso, era quello di "purificare" il cinema dalla "cancrena" degli effetti speciali e dagli investimenti miliardari. Niente luci, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, rifiuto di ogni espediente al di fuori di quello della camera a mano... Le regole da seguire per raggiungere questo obiettivo sono state espresse in un manifesto scritto.
C'è da dire che già dal primo film le regole sono state violate, ed ogni regista, chi più chi meno, ha ricorso a degli espedienti (musica, luci, scenografie) vietati nei propri film.
Come detto sul sito ufficiale, in realtà ogni regista può interpretare il decalogo a suo modo.

Il 20 marzo 2005, a Copenaghen, i registi hanno firmato il documento che, dieci anni dopo, ha sancito la fine del patto.
I dieci anni di esperienza della Dogma 95 hanno portato alla produzione di circa 40 film. Spesso questi erano riferiti solamente con un numero (Dogma 1, Dogma 2, ecc.) anziché con il titolo vero e proprio.

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Rassegna Mimosa Forever
LA ZONA

Spagna, Messico 2007
di
Rodrigo Plà .

Con Daniel Giménez Cacho, Maribel Verdù, Carlos Bardem, Daniel Tovar, Alan Chàvez, Mario Zaragoza, Marina de Tavira, Andrès Montiel, Blanca Guerra, Enrique Arreola, Gerardo Taracena.

L’opera di Rodrigo Plá, presentata alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia, appare come un film fantapolitico dai risvolti raffinati e sofferti. Pur con qualche eco del clima di persecuzione di 1984 e delle situazioni orrorifiche - metaforiche dei film di Romero, La zona si presenta come totalmente realistico e credibile, per poi instillare nello spettatore la sgradevole sensazione di stare assistendo ad una lenta caduta verso la degradazione morale di un’intera società. Il giovane protagonista, figlio di uno degli abitanti della zona, si troverà faccia a faccia con ciò che per il suo microcosmo è lo spauracchio e al contempo il capro espiatorio: uno dei ladri, il più giovane ed il solo sfuggito alla furia dei suoi vicini. E sarà un confronto tra la sua morale e quella dei suoi genitori, tra la sua conoscenza del mondo e il suo personale senso di pietà e comprensione.

Dietro di lui, gli adulti, in conflitto fra difesa dei propri privilegi e umanità. Come in The village, non è la fuga dalla violenza che salva chi si crede al di sopra del bene e del male, perché ciò che è insito nell’uomo non entra solo dalle brecce nei muri, ma emerge anche dalle crepe presenti nell’anima degli uomini. Il film si presenta, in ogni fotogramma, come una struttura solida, calibrata ed elegantemente ragionata: non scade nel banale thriller, né nella fiction di denuncia. Centra perfettamente il bersaglio senza essere retorico, grazie anche ad alcune scelte di regia che risultano toccanti senza mai suonare false. Anche se purtroppo, sembra che per Plá la società sia destinata alla totale disfatta morale. Gli spunti narrativi sono molti, e risolti nei modi più coerenti e coesi. I temi del il mondo dei ricchi, che si regge su ipocrisia, violenza e arroganza (quasi senso di onnipotenza), del danno subito dagli adolescenti, educati con valori morali parziali ed inumani, e

della disperazione dei poveri, umiliati fino all’annientamento, trovano un intreccio che non delude ed un gran finale che, lontano anni luce dal semplicismo con cui si potrebbe chiudere un normale action movie con venature di denuncia sociale, lascia lo spettatore con un reale vuoto nel cuore, desolato di fronte alla presa di coscienza della totale caduta della civiltà nel mondo borghese. Ma La zona lascia anche con una scintilla, come una luce, che ci permette di mettere in discussione la nostra idea di giustizia. In un caso come questo (raro, ma possibile), il Cinema diventa l’Arte che permette di indagare il Mondo.

Enrico Ruffato – nonsolocinema.com

La zona è un film che non fa sconti a nessuno.

Sembrerebbe raccontare una minuta ed immaginaria porzione del Messico, e viceversa salta completamente i confini geografici, puntando il dito contro il mondo occidentale nel suo complesso e nella sua complessità. Con un’opera prima che sorprende per rigore ed intensità, al punto da guadagnarsi Il Leone Del Futuro, il premio che a Venezia marca il regista più promettente, Rodrigo Plà firma un lavoro di fantascienza sociale – se così possiamo qualificare quell’insieme di film che ispezionano, rielaborano, radicalizzano e poi esibiscono alcune inquietanti tendenze presenti all’interno delle società. In questa categoria reperiamo film come Dogville, di Von Trier, o L’invasione degli ultracorpi, di Siegel, o Fahrenheit 451, di Truffaut. Film apertamente apocalittici, incubi ad occhi aperti, a metà tra tragedia ed horror, che rivelano cosa potrebbero diventare le società se confermassero e più tardi estremizzassero alcuni aspetti non particolarmente democratici. Ovviamente, questi film mettono in scena un futuro prossimo, o un lontano passato, e piuttosto che giocare con il realismo, preferiscono accostare le forme dell’allegoria o della metafora, facendo vedere tutto in chiave fantastica - tanto che i film, alla fine, somigliano ad un monito: un’immagine facilmente rintracciabile nella memoria, adatta a guidarci se qualcosa del genere dovesse proporsi.

Ma Plà vira felicemente verso le forme del realismo, e costruisce una storia che si radica nel nostro presente. Senza neanche lavorare tanto di immaginazione, il regista inquadra la

Zona, un quartiere curato e pulito, clamorosamente immacolato, del tutto fuori luogo rispetto ad una Città del Messico disegnata come un girone dell’inferno: nera, tristissima, con mozziconi di case impilate in un tetris inestricabile che s’irradia ovunque. La Zona esiste perché un muro divide il quartiere dal resto della città ed una pattuglia di vigilanti sorveglia il confine attraverso gli occhi delle telecamere. Solo che il giorno in cui tre giovanissimi si introducono per rapinare, l’altissima borghesia che abita la Zona, senza ricorrere alla legge, decide di farsi giustizia da sola, uccidendo due ragazzi e processandone il terzo, in un finale nerissimo come il sangue che si secca e non va più via.

Girato a mano, livido del colore della cenere, La Zona è un durissimo atto di accusa al nostro modo di vivere e percepire gli Altri. È il film che rivela il mito dell’uomo occidentale: il mercato aperto e la società chiusa, dove a percorrere le distanze sono solo le merci ed i flussi finanziari, mentre sui confini impenetrabili, ritagliati via dalla beatitudine, premono le masse dei disperati.

Ed il cinema di Plà ha questo di feroce: che è una fantascienza prossima ad avverarsi. Ed il senso di prossimità sgorga dall’uso sapiente del linguaggio cinematografico: la contiguità tra le inquadrature mosse da documentario e le immagini asettiche delle telecamere di sorveglianza rendono l’idea che tutto stia avvenendo adesso, sotto i nostri occhi. Occhi che, dopo i titoli di coda, hanno perso la loro innocenza: hanno già visto cosa sarà, cos’è nel presente, un mondo di mura e sangue.

Giuseppe Zucco – sentireascoltare.com

Rassegna Tempi Moderni

Vado, sala biblioteca
17 gennaio 2011, ore 21

La prima cosa bella

di Paolo Virzì, Italia 2009


Mamma, risate e tanta commozione

Rinunciando ai richiami sociali e alle suggestioni ideologiche Paolo Virzì fa il suo amarcord livornese e familiare, la sua autobiografia giovanile per interposti personaggi (proprio come Tornatore ha fatto in Baarìa, come Rubini nella sua Puglia, come Placido nel "suo " Sessantotto). Virzì lo fa attraverso una storia corale che dura quarant' anni. Con al centro Bruno (Valerio Mastandrea), infelice introverso irrealizzato, che è fuggito via dalla ridondanza, dall' esuberanza, dalla contagiosa voglia di vivere di Anna. Sua madre. Dalla quale torna quando lei (non più Ramazzotti ma Sandrelli) è in fin di vita. Divertente e commovente, amaro e fiducioso. C' è tutto.
di Paolo D'Agostini La Repubblica Commedia italiana Sei ancora la meglio
Io la conoscevo bene. Paolo Virzì sa amabilmente bleffare fin dai primi trenta-quaranta minuti de La prima cosa bella . Il ritratto di signorinella sognante, semplice e allegra, due bambini, marito irascibile, innocui amanti sparsi, qualche ricco squalo che la vuol far sfondare nel mondo del cinema, è quello di un carattere, di una figura ricorrente, di un archetipo del cinema italiano alla Antonio Pietrangeli o alla Valerio Zurlini. Un gioco al rimpiattino con le memorie più da spettatore innamorato che da cinefilo incallito, condito con una sfumatura di commedia amara alla Risi. Ecco servita anima e corpo di Anna Nigiotti in Michelucci (da ragazza interpretata da Micaela Ramazzotti, poi all'oggi da Stefania Sandrelli) scappare scapicollandosi tra le vie di una Livorno primi anni '70, coi bimbi presi al volo per mano dopo l'ennesima lite col marito maresciallo (un mirabile Sergio Albelli, metodo Stanislavskij). Attenzione però: il personaggio di Anna è l'elemento centrale di un film corale, in divenire, mischiato di continuo come un mazzo di carte da gioco color amaranto livornese, dove la gioiosa madre, sbarazzina in accoppiamenti e sentimenti, è punto centrale da cui si irradia una delicata forza centrifuga. Gli occhi larghi e profondi dell'Anna giovane e meno giovane, dentro i quali palpitano dolcezza, amore, passionalità, celano involontariamente anche irrequietezza e blocco psicologico dei figli Valeria e Bruno (da quarantenni oggi Claudia Pandolfi e Valerio Mastandrea): l'una non proprio soddisfatta degli affetti familiari cercatasi fin da diciottenne, l'altro fuggito giovane dalla dolorosa Livorno della sua infanzia e adolescenza. Attorno a loro, alla loro crescita, al loro farsi adulti, al continuo riassestarsi di equilibri madre-figli, padre-figlio, fratello-sorella, c'è anche tutta la sommessa bellezza e profondità di scrittura de La prima cosa bella. Un film orchestrato su mezzi toni recitativi, caratterizzazioni autentiche e mai nostalgiche di identità e luoghi (il giornalista Lenzi - Emanuele Barresi; l'incredibile ricostruzione del negozio Mansoni Sport, immaginario urbano-commerciale oggi assolutamente perduto) e una regia sempre un passo indietro rispetto alla frenesia, al vociare volgare di personaggi che si trovano in perenne, trattenuto, conflitto. Nel continuo andirivieni tra anni '70-'80 e 2009, Virzì centra, senza retorica riverenza, un paio di sequenze da vecchio commediante all'italiana: la festa a casa degli aristocratici (con dialogo comico sulle Tofane, gag della bimba sboccata con governante francese, l'alto/basso camerieri-padroni che ricorda il corrosivo Altman di Gosford park ) e il sottofinale brulicante di risa, pianti e anime pigiate in pochi centimetri quadrati. La prima cosa bella rasserena lo spirito, cancella ogni parvenza di perfidia e invidia dei personaggi, avvolge e culla gli spettatori con le carezze e gli abbracci materni di Anna (Micaela/Stefania). Marco Risi interpreta fugacemente papà Dino.
di Davide Turrini Liberazione

Rassegna Mimosa Forever

Calendario proiezioni gennaio/febbraio 2011

Gennaio 2011

Lunedì 17 gennaio 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale
La prima cosa bella
di Paolo Virzì,

Italia 2009


Giovedì 27 gennaio 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
La zona
di Rodrigo Plà,
Spagna, Messico 2007


Febbraio 2011
Giovedì 10 febbraio 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale
Open hearts
di Susanne Bier,

Danimarca 2002


Martedì 22 febbraio 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
Basta che funzioni
(Whatever works)

di Woody Allen,
USA 2009