CHE – Guerriglia
(Che – Part Two)
USA, Francia, Spagna 2008

di Steven Sodebergh .


Con Benicio Del Toro, Demian Bichir, Santiago Cabrera, Elvira Mìnguez, Julia Ormond, Rodrigo Santoro, Ramón Fernández, Yul Vazquez, Jose Caro, Jsu Garcia, Marisé Alvarez, Franka Potente, Catalina Sandino Moreno


In questo secondo capitolo della storia del Che, Steven Soderbegh fa un salto di ben 8 anni: dal 1958 con la presa di Cuba si passa direttamente al 1966, anno in cui il Che, all’apice del suo potere, scompare misteriosamente dalla scena internazionale per poi ricomparire in incognito in Bolivia, dove organizza un piccolo gruppo di compagni cubani e reclute boliviane, destinati a dare inizio alla grande rivoluzione latino-americana che lo porterà alla sconfitta e inevitabilmente alla morte. Nel primo capitolo era evidente l’accento posto sulla forza e sul trionfo della lotta organizzata e comandata dall’alto da Fidel Castro e egregiamente diretta dal Che, che riuscì a rendere Cuba libera dalla dittatura di Batista, grazie anche ad un forte consenso popolare. La guerriglia era sempre più consapevole del fatto che sarebbe riuscita a raggiungere l’obiettivo desiderato. Nella seconda parte invece quella forza e quell’entusiasmo presente nella presa di Cuba, viene a perdersi. Nella realtà dei fatti il mancato consenso popolare e l’appoggio inesistente di Castro e del partito finirono per rendere la guerriglia un semplice e piccolo gruppo disorganizzato. Per tradurre meglio il chiaro senso di fallimento a cui questa spedizione stava man mano andando incontro, il regista si è servito di alcuni escamotage molto validi: dialoghi pressoché inesistenti, una presa diretta in vero stile documentaristico, senza alcuna musica di sottofondo e fatta perlopiù in ambienti scuri e poco luminosi così da creare immagini dai colori più freddi. Benicio del Toro ha saputo interpretare con estrema cura i caratteri distinguibili del Che, riportandolo nei panni di un Uomo, non più icona abusata spesso dalla società in maniera inappropriata. In queste vesti il Che torna ad essere un semplice essere umano, dotato di forte personalità e di profondi ideali, umile con i propri compagni, leale con i nemici e orgoglioso delle sue azioni fino alla fine, anche in punto di morte.


Silvia Caputi – ecodelcinema.com
Novembre 1966…

Ernesto Che Guevara, allora Ministro per l’Industria a Cuba e all’apice della sua carriera politica, decide di lasciare l’isola dei mojito nella convinzione di esportare l’esempio della rivoluzione cubana anche in altri paesi del Sud America oppressi dalla dittatura. Dopo l’insuccesso ottenuto in Congo, organizzato un piccolo gruppo di compagni cubani e nonostante il parere dubbioso del leader maximo, Fidel Castro, decide di partire alla volta della Bolivia. Sin dall’inizio della campagna molte sono le difficoltà che il Comandante si trova a dover affrontare: il partito comunista boliviano si divide e finisce col non dare alla rivoluzione il sostegno promesso, il gruppo di guerriglieri si trova presto isolato, senza cibo e rifornimenti, incapace di reclutare consensi e sostegno da parte dei contadini e della popolazione locale, che anzi finirà col sostenere l’esercito e la polizia boliviana. In poco meno di un anno il campo di addestramento verrà scoperto. L’8 ottobre 1967, vittima di un agguato, Guevara sarà catturato a La Higuera. I generali boliviani decideranno di giustiziarlo il giorno dopo, non senza un accurato servizio fotografico che contribuirà ulteriormente, negli anni a venire, a costruire quell’immagine di eroe rivoluzionario che lo ha consacrato al mondo intero. Dopo Che – L’Argentino, arriva sugli schermi il secondo lungometraggio incentrato sulla rivoluzione boliviana e che completa un disegno preciso e puntuale del Comandante, frutto di diversi anni di lavoro da parte di tutto lo staff di Soderbergh. Dopo aver intravisto l’evoluzione di Guevara, da medico e semplice sostenitore della rivoluzione a comandante carismatico e indiscusso, il quadro si completa mostrando ancora di più la vera anima dell’argentino, mossa da nessun tipo di rivalsa di potere ma solo dallo spirito idealista e libertario, che lo ha reso al contempo vittima ed eroe. In questa seconda parte scompaiono i flash-back e il flash-forward in bianco e nero e prevale l’uso del colore. Lo spettatore ha quasi l’impressione di trovarsi trascinato nel pieno della giungla, grazie anche ad una fotografia più cupa, dovuta all'utilizzo quasi esclusivo di illuminazione naturale e una regia veloce e rapida, realizzata con l’innovativa macchina digitale RED - già utilizzata nella prima parte - che, attraverso i suoi 4 chili e mezzo, garantisce la stessa resa del 35 mm e la qualità del digitale puro. Trattandosi di un biopic piuttosto preciso e scevro da alcun tipo di faziosità o interpretazione, l’intero film ha già in sé quel senso di sconfitta e morte che la Bolivia lascerà al Comandante. Dopo la gloria e i colori delle case coloniali di Cuba, qui vediamo pioggia, malattie, morti e l’incapacità del popolo e anche dello stesso esercito, di credere e affezionarsi fino in fondo a questa lotta. La rivoluzione e gli ideali lasciano presto il posto all’amara sconfitta, e si chiude con gli ultimi istanti di vita del comandante, esanime, a terra, forse inconsapevole della futura memoria che lo renderà sconfitto nel campo ma vincitore nell’immaginario collettivo. L’ultimo sguardo che Soderbergh vuole lasciarci è forse quello che permane in molti: il guerrigliero che, alla volta di Cuba, guarda con speranza e fiducia l’orizzonte di un futuro imponente e smisurato, allora ancora sconosciuto.


Daniela Silvestri - Silenzio-in-sala.com
Racconto di Natale
(Un conte de Noel) Francia 2008

di Arnaud Desplechin.

Con Catherine Deneuve, Jean-Paul Roussillon, Mathieu Amalric, Emile Berling, Françoise Bertin.

I (ri)sentimenti
I motivi per amare il cinema di Desplechin sono gli stessi per i quali esso è denigrato e osteggiato da molti: cinema che non si risparmia, tutto di testa anche quando pare di stomaco, che si parla addosso, che straborda, impuro perché si impregna di tutto (televisione, letteratura, filosofia, storia, teatro – c'è anche del bergmaniano in questo -), cinema ombelicale ed egocentrico, cinema che è pieno di "troppo" (troppo parlato, troppo pensato, troppo prolisso), cinema compiaciuto, spudorato, che mette in piazza i meccanismi, cinema che non esita a citare, evocare, riecheggiare, che forza la linea stilistica tracciata e la piega all'esigenza della narrazione. Perché Desplechin è soprattutto lo strenuo sostenitore di un lavoro che è narrativo fino all'integralismo, introspettivo fino allo psicologico (scansando, senza sfiorarlo, lo psicologismo), strutturalmente libero, frammentario spesso e volentieri, pieno di deviazioni, sfasature, strane imprecisioni (La sentinelle) certo, ma mai gratuito, sempre perfettamente conscio di sé; un cinema intimo, apparentemente caotico, invero quadratissimo che, pur analizzando e rappresentando stati d'animo e sentimenti, non sfiora neanche per sbaglio la compassione e non crea facili complicità con lo spettatore (la recitazione stilizzata di Esther Kahn)…. In Conte de Noël (un titolo dickensiano, dunque romanzesco) si torna alla famiglia, consesso sfrangiato visto (è abitudine dell'autore) come una sorta di finzione sociale nella quale ci si affanna a trovare "compatibilità" - in questo caso fisico-biologica prima che (u)morale: la questione si rivelerà non meno capricciosa (il destino lo è) -; distanti dal sentimentalismo comodo di tanto cinema (anche transalpino) o dall'automatica, retorica cattiveria dei fratelli-coltelli, dalla scontata dinamica del nido di serpi, i Vuillard offrono allo spettatore le proprie interiora nude e crude(li), si scoprono e si scontrano senza alcun filtro: il potere possente del legame familiare è proprio quello di polverizzare le inibizioni e portare a galla l'Io più recondito, rendere la nevrosi una normale modalità di rapportarsi; solo in famiglia si dicono e fanno cose che suonerebbero eccessive, esagerate, assurde in qualsiasi altro contesto e non sorprende dunque che, nella rappresentazione del francese, ci si trovi di fronte a una madre che detesta apertamente il proprio figlio, partorito per puro calcolo; inutile allo scopo all'epoca, in seguito Henri si rivela inaspettatamente decisivo per la stessa sopravvivenza di Junon, anche se troppa acredine è passata, troppo radicata è l'insofferenza perché la salvezza della propria vita possa riscattarlo agli occhi della donna. E anche per Henri la donazione del midollo è vista quasi come un cinico sdebitarsi: ti do la vita come tu l'hai data a me, pari siamo. Ancora una volta l'armonia tra i personaggi è un percorso in salita, l'ipotetico obiettivo finale; ancora una volta l'intesa non è data in partenza, si parte dalla frantumazione e si tende ad un'unità possibile. Le relazioni tra le persone sono una materia dannatamente complicata e divengono astruse nel salotto borghese dei Vuillard, dove non si dice "papà" e non si dice "mamma"; dove la morte di un figlio si accetta come la caduta di una foglia da un albero; dove la nonna ha avuto una stabile relazione lesbica; dove l'ultimogenito Ivan rivede nella psicosi del nipote Paul quella della sua adolescenza; dove il rancore è il sentimento principe; dove vita e morte sono eventi svuotati di implicazioni umane, ridotti a probabilità su una lavagna, crocifissi a un freddo calcolo; dove i nipotini già "proiettano" in ingenue rappresentazioni teatrali nelle quali amleticamente ci si riconosce: la dea Junon al centro della piccola platea, come la sovrana di questo microregno (non dimentichiamoci i nomi dei quattro figli: Joseph, Elizabeth, Henri, Ivan – i re, la regina); in cui è tutto un riverberarsi di malesseri e livori, veri e propri intrighi di corte, appena mediati da un rimpianto, in un cumulo di eventi fatali e di ruggini riflesse che sfiora il demenziale, ma che non per questo risulta meno lancinante, meno scorticante, meno esattamente doloroso. Su tutto questo affanno vigila non solo l'occhio del testimone Faunia (nome della protagonista de La macchia umana di Roth - a La controvita di Roth sarà ispirato il prossimo film del regista -), ma anche quello di Elizabeth, che soffre più di tutti, pare, e che più di tutti sembra patire la solitudine del dolore, tanto da volervi trascinare qualcuno pur di non dirsi sola in quella palude, e che non esita a fare letteratura di questo suo dibattersi. Anche Desplechin non esita a mettere in gioco se stesso e il suo vissuto in quello che si sta rivelando un unico grande romanzo cinematografico, un opus sempre più compatto che racconta la vita (e l'arte) attraverso tantissime parole e tantissimi atti di personaggi vivi, concreti, non di archetipi, per quanto i riferimenti leggibili possano farlo pensare: i caratteri che si muovono sulla scena non sono metafore, sono uomini e donne nudi, senza la protezione di alcun paradigma; solo in questo senso possiamo dirci d'accordo: il cinema di Desplechin può essere fastidioso, provocare disagio; è un cinema che disturba perché ci strappa le vesti di dosso e ci obbliga all'imbarazzo di constatare e far constatare ciò che siamo (l'attore, volendo "far credere", deve mentire o dire la verità? Il paradosso di cui parla il vecchio pigmalione impersonato da Ian Holm in Esther Kahn in cui la protagonista, alla fine, diventando una vera donna diventa una vera attrice)….. …… Questo senza stare a sottolineare quanto magnificamente sia girato questo Conte de Noël (la macchina da presa è nelle mani del solito Eric Gautier), con quale sottigliezza sia scritto, con quale piglio siano diretti gli attori (una squadra fantastica – cito la Devos per tutti, che trovo sempre di bravura inqualificabile -). Desplechin, mai così concentrato e misurato (sì, proprio), forse meno spericolato del solito, sfiora il virtuosismo, firma un nuovo capolavoro.

Luca Pacilio www.spietati.it
CHE – L’argentino
(Che – Part One)

USA, Francia, Spagna 2008
di Steven Sodebergh

Con Benicio Del Toro, Demian Bichir, Santiago Cabrera, Elvira Mìnguez, Julia Ormond, Rodrigo Santoro, Ramón Fernández, Yul Vazquez, Jose Caro, Jsu Garcia, Marisé Alvarez, Franka Potente, Catalina Sandino Moreno.


“No soy un libertador. Los libertadores non existen. Son los pueblos quienes se liberan a si mismos » Si può raccontare la vita di Ernesto Guevara senza fare i conti con il mito del «Che»? La sfida sembrerebbe impossibile: anche un film come I diari della motocicletta, che ne raccontava la giovinezza argentina, non riusciva a tenere a freno la contagiosa esuberanza del protagonista. Affrontando invece i due momenti cruciali della vita di Guevara, la rivoluzione cubana prima e la guerriglia in Bolivia poi in un mega-film di oltre quattro ore che esce in due parti (adesso Che-L'argentino e a maggio Che-Guerriglia), il regista Steven Soderbergh sembra essersi fatto guidare soprattutto dalla voglia di raffreddare la materia e di affrontare con gli strumenti della ragione quello che di solito si racconta con l'entusiasmo del militante. Caldeggiato fortemente dall'attore Benicio Del Toro (che si cala nei panni di Guevara con sorprendente rassomiglianza) e dalla produttrice Laura Bickford, il progetto del film ha cominciato a prendere forma più di dieci anni fa, nel 1996, ma è diventato qualche cosa di concreto solo nel 2005, dopo che la sceneggiatura è stata affidata a Peter Buchman. È dal suo lavoro e da quello di Soderbergh che nasce l'idea di privilegiare due soli momenti di tutta la lunga e avventurosa vita del «Che» giocando continuamente al contrappunto: Cuba contro Bolivia ma anche, all'interno della prima parte, teoria contro azione, utopia contro (dura) realtà, rivoluzione contro (o a fianco di) politica. Questa operazione non è evidentemente senza conseguenze: da una parte permette al film di avere un andamento il meno hollywoodiano possibile, lontanissimo dall'epicità finto-romantica con cui il cinema americano ha spesso raccontato rivoluzioni e rivoluzionari (basterebbe pensare all'orrendo Che! di Fleischer con Omar Sharif nei panni di Guevara). E dall'altra offre al film la possibilità di «distaccarsi» dalla materia raccontata per trasformare la storia in strumento di (auto)riflessione, recuperando certi insegnamenti godardiani sull'intreccio tra finzione cinematografica e inchiesta giornalistica (non a caso Questa è la mia vita era uno dei modelli a cui Soderbergh si è ispirato). Ecco perché Che-L'argentino gioca molto col montaggio, perdendo di vista lo svolgimento cronologico delle azioni e invece giustapponendo momenti della visita del «Che» alle Nazioni Unite nel 1964 a episodi della guerriglia sulla Sierra Maestra cubana del 1957/58 a momenti addirittura precedenti, come l'incontro tra Guevara e Fidel Castro in Messico nel 1955. In questo modo frasi e dichiarazioni più «programmatiche» (come erano le risposte ai giornalisti americani o i punti salienti del suo discorso all'Onu contro l'imperialismo e la sudditanza degli Stati sudamericani) trovano un riscontro immediato con le scelte concrete fatte durante la guerra rivoluzionaria, anche loro mostrate non per la loro forza epica ma piuttosto per quello che possono «insegnare» e «dimostrare». Così fa una certa impressione sentir dire a una giornalista newyorkese che la prima qualità di un rivoluzionario è «l'amore» e subito dopo vedere la decisione di abbandonare un compagno alle sevizie dei soldati di Batista pur di non farsi scoprire, scelta che si spiega solo capendo che quell'«amore» non va inteso in senso cristiano ma rivoluzionario, perché il sacrificio di un militante giustifica la possibilità della sopravvivenza del gruppo. O ancora, prima dell'attacco alla caserma di El Ulvero, il discorso sulla inevitabile vittoria dei rivoluzionari di fronte ai mercenari che sembra essere contraddetto dai morti che i ribelli lasciano sul campo ma che finisce per essere avvalorato dalla conquista della postazione. Ogni scena, cioè, prende valore per quello che spiega e insegna sul percorso rivoluzionario e non per la forza emotiva che può avere. È per questo che il film andrebbe visto nella sua interezza di quattro ore, perché la seconda parte funziona da contrappunto alla prima e molte scene della prima rimandano alla seconda o trovano lì la loro «conclusione» (come il discorso sui sedicenne che a Cuba non possono partecipare alla rivoluzione e in Bolivia sì, salvo poi scoprire che i primi si riveleranno dei veri rivoluzionari e i secondi tradiranno). Ma la distribuzione ha leggi che a volte vanno contro a quelle dei film e in questo modo Che-L'argentino finisce per pagare delle colpe che non sono del tutto sue. Nella sua unità/complessità sarebbe stato più chiaro il percorso di Soderbergh. Così invece si rischia di accentuare troppo una scelta di stile che sembra solo «contro» (contro il mito del «Che» ma anche contro l'epicità troppo programmatica di certo cinema hollywoodiano) e meno «a favore» (di un soggetto indubbiamente originale e lontano dalle mode).

Paolo Mereghetti – Corriere della Sera.it

La vìe en rose
(La Mome) Francia, GB, Rep. Ceca Italia 2007
di Olivier Dahan.
Con Marion Cotillard, Silvie Testud, Jean-Paul Rouve, Pascal Greggory, Marc Barbé, Emanuelle Seigner, Gerard Depardieu, Catherine Allégret.

Un ritratto libero e non didascalico della cantante francese Edith Piaf
La pellicola, ambientata in Francia e a Praga, ripercorre i drammi e le gioie di una delle leggende della canzone francese e internazionale, Edith Piaf. Nata nei sobborghi parigini, la diva diventa famosissima fin da giovane. La sua voce, caratterizzata da mille sfumature, era in grado di passare da toni aspri a toni dolcissimi. Molte le sfortune e i fatti negativi: incidenti stradali, coma epatici, interventi chirurgici, delirium tremens e anche un tentativo di suicidio. La pellicola di Dahan ricostruisce bene una delle sue ultime apparizioni pubbliche in cui appare piccola e ricurva, con le mani deformate dall'artrite e con radi capelli. Solo una cosa era rimasta inalterata e splendida: la sua voce. Il fatto che il regista abbia preso come spunto iniziale per il film una fotografia della cantante e non la sua musica non ci sorprende affatto. Conferma, anzi, il taglio pienamente cinematografico dell’opera. Partire da questo punto è sinonimo di un omaggio che rifiuta il didascalismo e una ricostruzione strettamente biopic. Il termine corretto è ritratto che, oltre a esaltare il talento artistico della Piaf, si addentra nel cuore della sua complessa umanità. Il regista, pur documentandosi a lungo, ha preferito seguire le proprie idee senza farsi influenzare da qualcuno in particolare (amici, conoscenti) o da letture intraprese. La scelta di evitare il taglio biografico si sviluppa attraverso un doppio binario. L’ottima interpretazione di Marion Cotillard che fugge qualsiasi tentativo imitatorio e nasconde, sottilmente, il preciso intento di dare alla performance stessa una vita sua, lontana da condizionamenti o costruzioni esterne. In secondo luogo, il regista, consapevole di riduttive letture critiche, ripercorre alcuni dei fatti principali della sua esistenza senza rispettare l’esatta cronologia. Ogni frammento di vita sembra giustificarsi grazie a quello precedente. Il senso delle cose prende quota piano piano lavorando di addendi. Le molteplici facce della diva emergono con una soave naturalezza rendendo facile e scorrevole la lunga visione del film.
Matteo Signa- mymovies.it

Esistono storie e storie di vita di grandi personaggi della storia dell’umanità. Come esistono storie di vita di artisti che si possono considerare universali per la loro unicità di forza umana che sanno o hanno saputo trasmettere attraverso il loro talento artistico. Quella forza sublime che solo l’arte e l’artista contengono, e la cui interpretazione sempre e continuamente riesce a scuotere le coscienze,
a parlare direttamente all’anima. C’era una volta una bambina, nata agli inizi del secolo scorso e secondo la leggenda partorita in un portone, costretta ad una vita misera e nella miseria. I suoi grandi occhi blu guardavano quella piccola parte di mondo della Belleville parigina, i vicoli malfamati, i marciapiedi dove, per soldi, esibiva le sue naturali doti canore. Le grandi voci non passano inosservate, a maggior ragione quando il canto cattura l’attenzione dei passanti per strada. E così per Edith Gassion (Marion Cotillard), l’incontro per strada con Louis Leplèe (Gerard Depardieu), folgorato dalla sua voce, segna un momento di rottura con un passato squallido ed umiliante, per dare inizio pian piano alla trasformazione di Edith Gassion nel personaggio della “Môme”: Edith Piaf. La voce della Piaf presto arriva oltre oceano. Conquista l’America quella donnina fragile, piena di forza interiore, di amore, di passione. Con la sua voce rabbiosa, ma nel contempo emozionante e commovente, canta la vita, l’amore, la speranza. Canta Edith Piaf! Canta per il suo pubblico, per la gente che l’aspetta in platea con trepidazione, anche quando la vita non le risparmia dispiaceri terribili, non la risparmia dalla malattia, dall’insopportabile dolore fisico. Chi era veramente “la Môme”? Cosa sappiamo della Piaf persona, leggenda nazionale della Francia ma anche del mondo intero? Cosa ha permesso veramente a questa donna goffa, impacciata, di sopravvivere e alla fine uscire dalla povertà e dalla sofferenza dei sordidi quartieri del dopo guerra parigino, fino alla conquista di quel riconoscimento di un messaggio di arte vera, inebriante, sul palcoscenico internazionale? La risposta questa volta la dà il regista di questo film straordinario: Oliver Dahan. Senza riproporre storicamente la vita di una Parigi inizio secolo, Dahan costruisce i luoghi dell’epoca attraverso una propria sensibilità, riuscendo a catturare un proprio sguardo nella costruzione della narrazione. La riuscita dell’opera è sorprendente. Dahan entra in quel mondo parigino animato dalle strade incorniciate di Belleville, dai bordelli da cui fuoriesce l’acre odore di sudore umano. Con un’articolarsi nel montaggio di avvenimenti spazio-temporali della vita di Edith Piaf, Dahan coglie quel lato di vita dell’artista Piaf, sconosciuto al grande pubblico, dove momenti drammatici si alternano a momenti felici e di successo. Oliver Dahan costruisce così l’identità della grande artista, un’identità di gloria e successo, ma anche di vita comune, che ritrae una Piaf malandata, fragile, distrutta dalla malattia, che acquistava forza e vita nel momento in cui con il canto comunicava con il mondo. Senza dubbio, l’acutezza nella scelta di Oliver Dahan di aver saputo coordinare nella narrazione momenti chiave della vita dell’artista Piaf, ha dato al film la particolarità di un’opera compiuta nella sua interezza. Il film si veste, con classe, di tensione emozionale, e mette in scena con arte il destino paradossale di questa donna, la cui voce ha scosso e procura, nell’ascolto, sensazioni forti. Marion Cotillard, nella performance della Piaf è assolutamente sconvolgente. Interpreta la camminata, la mimica dei gesti dell’artista, come lei era solita, ossia in maniera quasi clownesca. L’interpretazione della Piaf conferisce a Marion Cotillard la capacità sublime di trascendere il personaggio, ed “essere” Edith Piaf. Questa è l’impressione che la Cotillard riesce a trasmettere, in un modo così convincente che non si può dire che non sia la Piaf, rivelandosi un’attrice di grande e ragguardevole talento. “La vie en rose” è un film magico, da cui traspare l’anima dell’artista Piaf, attraverso lo sguardo sensibile di Oliver Dahan, che, con questo ultimo lavoro, dimostra come si rende l’arte sul grande schermo. Di grande efficacia la colonna sonora, che ripropone con la voce della stessa Piaf, suoi brani intramontabili da Padam alla Vie en rose. Un film ricco di tensione ed emozione molto bel gestite nella narrazione, senza tuttavia cadere in un facile e scarno sentimentalismo.
Rosalinda Gaudiano – cinema4stelle.it
MARZO 2011

lunedì 7 marzo 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale

La vìe en rose
(La Mome) di Olivier Dahan
Fra, GB, Rep. Ceca 2007
Rassegna: Mimosa forever



martedì 22 marzo 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
CHE –L’argentino
(CHE- Part One) di Steven Sodebergh
USA, FRA, SPA 2008
Rassegna: Tempi Moderni


APRILE 2011

lunedì 4 aprile 2011 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale

Racconto di Natale
(Un conte de Noel) di Arnaud Desplechin, Francia 2008
Rassegna: Tempi Moderni

giovedì 21 aprile 2011 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
CHE – Guerriglia
(CHE- Part Two) di Steven Sodebergh
USA, FRA, SPA 2008
Rassegna: Tempi Moderni