Frozen River – Fiume di ghiaccio
Italia 2002
di Courtney Hunt. Con Melissa Leo, Misty Upham, Charlie Mc Dermott, Mark Boone jr., Michael O’Keefe, Jay Klaitz, Bernie Littlewolf, Dylan Carusona.

Confine tra lo Stato di New York e il Quebec, pochi giorni prima del Natale. Ray è stata abbandonata dal marito senza denaro e con due figli, uno di 15 e uno di 5 anni. La famiglia stava per realizzare il sogno di una nuova casa prefabbricata che sostituisse quella in progressivo degrado in cui i suoi componenti abitano.
Un giorno Ray conosce Lila Littlewolf, una giovane donna appartenente alla comunità Mohawk che vive sulle rive del fiume San Lorenzo che, ghiacciandosi in inverno, diviene una strada percorsa per far entrare clandestini negli Stati Uniti. Lila appartiene al giro e Ray finisce con l'affiancarla.
Courtney Hunt, alla sua opera prima come regista e come sceneggiatrice, non solo ha avuto una nomination all'Oscar ma ha portato fortuna alla sua attrice protagonista Melissa Leo (anch'essa presente agli Oscar nella cinquina delle migliori attrici e vincitrice di una serie di premi in altre manifestazioni).
Avendo ottenuto il Premio della Giuria al Sundance, Frozen River entra a buon diritto nell'ambito di quel cinema indipendente americano che ancora esiste ed è capace di sfuggire alle sirene del mainstream.
Si potrebbe, a un primo sguardo, accusarlo di idealizzare le condizioni umane che va a narrare. I nativi vivono di illegalità ma sono in fondo di buon cuore, i meno abbienti nutrono sentimenti nobili e via elencando…
Ma non è così perché questo è un film che spinge lo spettatore ad andare oltre la prima impressione. Raccontando dell'incontro di due donne provate dalla vita, scava nel senso di responsabilità nei confronti dei figli inserendo il tema in un contesto che il cinema made in Usa ci ha abituato a veder rappresentato in altri climi. Il traffico di clandestini è quasi sempre legato alla frontiera con il Messico. Il ritrovarlo sullo schermo nel gelido nord modifica le coordinate della percezione, non solo visiva.
Le algide contrattazioni rendono ancor più concretamente tragica (quasi fossimo in un film dei Coen) la dimensione della sopravvivenza ottenuta al prezzo dello sfruttamento di altri esseri umani.
Hunt però, in un film in cui i confini marcano la loro incombenza non solo tra gli Stati e le Riserve ma anche tra le persone, sa scrutare nel profondo dell'animo umano. Il suo sguardo è rivolto verso un sentire che accende in due donne, distanti per cultura e origini, il progressivo calore di un tentativo di solidarietà.

Giancarlo Zappoli
www.mymovies.it

"Cartellazzi stradali verdi con scritte bianche Land of Mohawk, benzinai scalcagnati, drugstore sgangherati, prefabbricati dalle grondaie arrugginite al posto di case e un fiume ghiacciato.
'Frozen River', regia di Courtney Hunt, è collocato e diluito in mezzo a questi elementi d'ambiente che lo sorreggono e arricchiscono di suggestioni visive.
Campi lunghissimi per almeno venti-trenta minuti di film che amplificano l'allontanamento, l'essere sui generis del luogo.
Il fiume ghiacciato, infatti, è pista, percorso provvisorio e clandestino che collega Canada, stato del Quebec, e lo stato americano di New York.
Tragitto abusivo, improvvisato e rischioso attraverso il quale lavoratori stranieri, o non statunitensi, entrano illegalmente negli Stati Uniti. (...)
La macchina da presa della quarantaquattrenne Courtney Hunt, alla sua opera prima, è lievemente indecisa su come gestire la vicinanza fisica del mezzo ai protagonisti, proprio dopo aver deciso che il paesaggio deve fare significativamente pari e patta con corpi e visi.
Ne risulta un film esteticamente ancora di scarsa chiarezza ed esperienza sorretto però da una certa concretezza nell'imporre ritmo sincopato al racconto e da uno script ricco di spunti a raggiera: i vari casi dei clandestini mai trattati in crescendo o rendendoli retoricamente emblematici, lo spigoloso rapporto di Ray con il figlio più grande, quella sorta di autismo fastidioso di Lila.
E poi c'è il tema dell'immigrazione clandestina: forte, intenso, penetrante che non può lasciare indifferenti.
Melissa Leo, bella faccia segnata e fisico tonico, è sempre stata un'onesta figurante fino all'exploit di 'Frozen River'."

Davide Turrini
'Liberazione', 20 febbraio 2009

rassegna Mimosa forever

Irina Palm USA 1986
di Sam Garbarsky. Con Marianne Faithfull, Miki Manojlovic, Kevin Bishop, Dorka Gryllus, Jenny Agutter, Corey Burke.

La linea di confine
Maggie è una nonna per bene, nonostante a Soho si trasformi in Irina Palm e sia la maga del sesso manuale. Maggie mantiene la sua aria da dignitosa e rispettabile signora di provincia anche mentre viene illuminata dal neon delle insegne dei locali notturni, o mentre si accinge a lavorare in uno dei club a luci rosse che animano il buio confusionario di Londra. Irina Palm non esiste. Irina Palm è un mezzo che consente a Maggie di provare a vedere realizzato il suo sogno: la guarigione di quel nipotino da tempo malato, la speranza di poter cogliere una scintilla di salute nello sguardo dolce e indebolito dalla malattia di quel bimbo al quale è così strettamente legata. Non c’è volgarità nei gesti di Maggie, non c’è nulla di scabroso nella sua scelta: masturbare i clienti del sexy club dove lavora è solo un metodo come un altro per procacciarsi denaro e nulla è eccessivo quando c’è in ballo la vita di un bambino. Garbarski parla di amore e lo fa affrontando il sentimento più pulito possibile: quello che lega una donna al proprio nipote. Se la nonna dolce ed affettuosa de Le Temps qui reste era destinataria di confessioni da sussurrare, qui Maggie promette al nipotino di rivelargli la verità solo una volta cresciuto, preservandolo da un segreto difficile da svelare e soprattutto proteggendolo dall’incomprensione. Il bigottismo spesso imperante viene spazzato via con decisione da una sceneggiatura tanto esile quanto ferma nel ribadire la moralità delle scelte della protagonista. “Eticamente accettabile” non è chiudersi dietro alle barriere dell’ipocrisia (l’amica scandalizzata, che però in passato non si era fatta scrupolo nel portare avanti una relazione con il marito di una delle sue più care “compagne di tè”) quanto aprirsi a qualunque possibilità, anche quando si è costretti a tirare in ballo tutti i propri valori e le proprie certezze. Maggie non è orgogliosa del suo lavoro di masturbatrice, ma va giustamente fiera del suo impegno nel salvare il proprio nipote: la prostituzione delle proprie mani è semplicemente parte integrante di un percorso che porta all’esaltazione del sentimento a discapito di qualsiasi altro agente esterno. La stessa vergogna che la donna prova nei primi giorni di lavoro, quando teme che la sua attività “illecita” possa essere scoperta dai suoi concittadini e dalle sue amiche si dissolve a poco a poco, mitigata dalla consapevolezza della normalità delle situazioni che si ritrova ad affrontare e dell’umanità che la circonda (la collega ragazza madre, il boss dai modi duri che nasconde le sue fragilità e la sua tenerezza). La famosa scelta fra essere e apparire, inflazionata al cinema ma anche e soprattutto altrove, trova nel film di Garbarski una nuova (ma certamente non innovativa) declinazione. Irina Palm non è una pellicola che sbriciola le recinzioni del qualunquismo, ma cerca quanto meno di aprirsi un varco con l’originalità di una vicenda che appare incredibilmente sincera. Non c’è ironia nelle vicissitudini narrate né comicità spicciola: il sorriso, leggero e soprattutto amaro, nasce dalla consapevolezza di una realtà difficile da accettare, che non viene imposta come moralmente ortodossa ma alla quale viene dato il compito di incentivare il desiderio di riflessione. La vita della famiglia di Maggie, già debilitata dalla malattia del bambino, è ulteriormente scossa dall’imprevedibilità della scelta della donna: perché i soldi non danno la felicità, ma sicuramente aiutano a raggiungerla. Indubbiamente poi Garbarski ingarbuglia le carte, cerca la svolta sentimentale in un amore dolce e casto ambientato in locale a luci rosse e ripiega un po’ troppo sul lieto fine: ciò non toglie che Irina Palm (le cui sottili riflessioni richiamano vagamente la sensibilità almodovariana) riesca con garbo ad affrontare un tema “scomodo” (o presunto tale) annientando ogni spunto “trasgressivo” e anzi colorando di soave naturalezza una situazione complessa e tortuosa. Mentre il dramma viene insonorizzato dalla leggiadria della commedia, si spande nell’aria il martellante battito della musica sulla quale si avvitano le ballerine di lap-dance, rumore che si mischia ai gemiti dei clienti di un sexy club. Nella mente di Maggie però non c’è spazio per la volgarità. Un vasetto di fiori sul tavolo di lavoro, un quadruccio appeso alla parete che la separa dagli uomini che “aiuta” e un sorriso stampato negli occhi: quello di suo nipote.

Priscilla Caporro
pubbl. 13-12-2007

www.spietati.it

rassegna Mimosa forever

Programmazione Invernale

Dicembre 2009

lunedì 14 dicembre 2009 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale
IRINA PALM di Sam Garbarsky, Lussemburgo, Belgio, GB, GR, FR, Italia, 2007
rassegna Mimosa forever

lunedì 21 dicembre 2009 h. 21,00 Monzuno, sala biblioteca comunale
FROZEN RIVER (Fiume di ghiaccio) di Courtney Hunt, USA 2007
rassegna Mimosa forever

Gennaio 2010

lunedì 11 gennaio 2010 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale
NON DESIDERARE LA DONNA D'ALTRI di Susanne Bier, Danimarca 2004
(Brodre/Brothers)
rassegna Mimosa forever

lunedì 25 gennaio 2010 h. 21,00 Monzuno, sala biblioteca comunale
TUTTI I BATTITI DEL MIO CUORE di Jacques Audiard, Francia 2005
(De battre mon coeur s'est arreté)
rassegna Vita e musica
Quattro minuti
(Vier minuten) Germania 2006
di Chris Kraus. Con Monica Bleibtreu, Hannah Herzsprung, Sven Pippig, Richy Muller, Jasmin Tabatabai, Vadim Glowna, Nadja Uhl

L'ottantenne Traude Krüger si reca ogni giorno presso il carcere femminile di Lickau dove insegna a suonare il pianoforte a un numero sempre più esiguo di allieve. Il corso rischia di essere chiuso ma la donna, grazie anche alla solidarietà di un guardiano, riesce a convincere il direttore. Un giorno però sarà la stessa guardia carceraria, massacrata di botte da una detenuta, Jenny, a cambiare idea. Jenny è infatti in carcere accusata di omicidio. Ha uno straordinario talento per il piano ma è preda di crisi di violenza che la gettano nello sconforto. Traude, inizialmente diffidente nei suoi confronti, deciderà di insistere riuscendo, nonostante i vincoli burocratici e non posti dal personale del carcere, a portarla fino alle soglie di un Concorso per giovani pianisti. C'è però un altro ostacolo che pare insuperabile: Jenny ama svisceratamente l'hip hop col quale riesce ad esprimere sulla tastiera la sua creatività e la sua rabbia. Traude invece lo detesta. I film sul rapporto insegnante-allievo/a in cui l'uno cerca di spingere l'altro a esprimere il suo talento grazie al rigore rischiano sempre di fare la stessa fine: conflitti, incomprensioni, progressi e poi il trionfo che fa contenti tutti. Non è così in 4 minuti dove la dinamica narrativa è molto più complessa e affronta direttamente non solo il tema dell'arte e di chi ne è dotato ma anche quelli, altrettanto importanti, dell'influsso di un passato il cui peso è difficile da portare e della rieducazione in ambito carcerario. Traude e Jenny non sono due personaggi da "romanzo di formazione" trasposto sullo schermo. Sono due esseri reali (la sceneggiatura ha vinto nel 2004 un importante premio in Germania) fatti di nervi, di rigidità, di scarsi abbandoni e di improvvisa (per Jenny) quanto incontrollabile violenza. Sono due donne ferite nel profondo che cercano (l'una chiudendosi in un rigore quasi ottocentesco e l'altra cercando la regola della nessuna regola) una via d'uscita. Che passa anche attraverso il rifiuto dell'altro come persona. Come se fosse possibile insegnare e apprendere senza mettersi in relazione al di là della 'tecnica'. Le due protagoniste saranno costrette reciprocamente a scoprirsi ad accettare pregi e difetti dell'altra (anche quelli che sembrano non emendabili). Solo così potranno dare un senso a una 'rieducazione' che dovrebbe essere lo scopo di ogni carcerazione e che invece molto (troppo) spesso non lo è. A dare corpo e nervi a Traude e Jenny Monica Bleitbtreu e Hannah Herzsprung. Attrice notissima in patria la prima e figlia d'arte la seconda costituiscono un'ulteriore prova del fatto che il cinema europeo esiste ed è in buona salute. Ma i nostri schermi parlano quasi solo americano (doppiato).
Giancarlo Zappoli
www.mymovies.it

“Un carcere. Due donne. Tre esami. Quattro minuti, per suonare finalmente la musica della propria anima”. Questo il riassunto in breve del secondo lavoro di Chris Kraus. A cinque anni di distanza da Scherbentanz, che segnò il suo debutto sul grande schermo, il regista tedesco torna nelle sale con un dramma elevato e corposo, tutt’altro che scontato. La trama, firmata Chris Kraus, si snoda con andirivieni temporali che svelano il passato delle due protagoniste: assolutamente superbe nella loro interpretazione. Una nei panni della nostalgica ottantenne Traude Kruger (Monica Bleibtreu), insegnante di piano con gli occhi e il cuore al periodo della Germania nazista; l’altra in quelli di Jenny Von Loeben (Hannah Herzsprung), giovane detenuta dal talento nascosto e dall’aggressività meno celata, amante della “musica negra”: l’unica con la quale riesce a dar voce alla sua anima. Tutto è dosato con maestria: le riprese, le simbologie affidate agli insetti, la musica che con le note dei tasti accompagna e dirige l’intera pellicola: tutto, tranne le reazioni dei personaggi, che scaturiscono in maniera naturale, con violenza o con dolcezza, da farci dimenticare di essere di fronte a un film. Il rapporto tra le due donne è il centro della narrazione, cresce piano, senza abbracci, con ostilità all’inizio e poi con stima reciproca; poche le azioni e tanti gli sguardi, profondamente carichi di significato…una relazione sempre precaria, tesa sul filo di una femminilità che porta sul corpo e nel corpo cicatrici dolorose. Se all’inizio il colore che predomina nell’obbiettivo è il blu, a mano a mano che il film si mostra, quel blu si ingrigisce e diventa più cupo, squarciato a volte dalla luce accecante che penetra dalle finestre e svela volti e ambienti, restituiti sullo schermo con una regia che, per adeguarsi alle situazioni, cerca frequente nuove angolazioni di ripresa. Il colore blu però riappare durante il film, tramutato in fiore quando tornano a trovarci vecchi fantasmi del passato, che si rivelano scomodi per entrambe le protagoniste. Un ostacolo al loro affetto e al loro estremo bisogno dell’altra. Credo non ci sia più niente da dire: è un film manifesto del cinema europeo dei nostri giorni e va visto. Solo un’ultima cosa: quante sale a Roma ospitano questo film? ….a tutti buona riflessione.
Vera Usai
www.cinemadelsilenzio.it
Peggy Sue si è sposata
(Peggy Sue got married) USA 1986

di Francis Ford Coppola.
Con Kathleen Turner, Nicolas Cage, Barry Miller, Jim Carrey, Catherine Hicks, Joan Allen, Sofia Coppola, Don Murray, Helen Hunt, Mauren O’Sullivan, Leon Ames.


da
Il Corriere della Sera, 14 febbraio 1987

In una bella pagina degli anni Trenta quell'amabile scrittore che fu Antonio Baldíni (“ingiustamente dimenticato”) si chiedeva che cosa avrebbe voluto essere se fosse rinato. “Vorrei essere - si rispondeva - altri da quel che sono. Però non vorrei rinunciare a fare in un modo o nell'altro la conoscenza del mio me d'adesso...”.
Qualcosa del genere succede a Peggy Sue, una signora americana sui quarant'anni, che appena uscita dal liceo sposò- l'uomo dal quale ha avuto due figli e dal quale ora vuole divorziare perché l'ha tradita. L'occasione di “rinascere” le è offerta quando, nel corso di una festa tra vecchi compagni di scuola, perde conoscenza, e si ritrova nel 1960, nella casa in cui viveva con i genitori e corteggiata da Charlie. Peggy Sue conosce il proprio futuro: sa che si è maritata con Charlie e che n'è stata ingannata. Perciò, appunto, col senno di poi, tenta di rinascere diversa, di cambiarsi il destino. E dunque, anziché legarsi al suo spasimante, cerca di amare altri compagni di classe, soprattutto un promettente studioso di astrofisica e un beatnik che scrive poesie. La sua sorte è invece segnata. Benché il rapporto con Charlie sia burrascoso (alla luce della sua esperienza di donna ormai matura, Peggy Sue si offre al ragazzo che scandalizzato la rifiuta), e benché forse sia stato il giovane poeta a metterla incinta, le nozze con Charlie sono infatti inevitabili. Nemmeno al divorzio di venticinque anni dopo c'è ormai rimedio? C'è, per fortuna. Perché è proprio un Charlie pentito e innamorato come prima che Peggy Sue si trova al capezzale svegliandosi, in clinica, dal suo lungo sonno... Continuando il suo costume di alternare un film di grande impegno e un'opera “minore”, dopo Cotton club Francis Coppola ci dà con Peggy Sue si è sposata una commedia meno personale di quanto si potesse supporre ma gentile, qua e là tenera e mesta, che fra le pieghe suggerisce lo strazio di Coppola per la perdita del figlio e la sua nostalgia d'un immutabile passato. Il film ha una sceneggiatura (della coppia Jerry Leichtling e Arlene Sarner) che ha preso qualche colpo di vento, ma quanto lo caratterizza in positivo è il lasciar cadere gli spunti più banali, dettati dalla singolare circostanza che Peggy Sue potrebbe anticipare persino certe scoperte (la donna si limita a darne notizia, e per suo conto “inventa” il collant),e il diffondersi invece nell'ambientazione domestica, nel disegno dei caratteri e nella pittura del quotidiano. Dopo il bel “prologo in terra”, che ci ha ricordato un certo Altman, sulle ali del sogno si entra infatti in una sorta di rifondazione degli anni Sessanta, compiuta con un dosaggio spesso felice di ironia e di dolce rimpianto, per cui il film è anche un viaggio attraverso i modi sentimentali e figurativi in cui la memoria formalizza il Tempo (i nonni al caminetto...). A differenza di Ritorno al futuro, siamo insomma nella riesumazione assai attenta di luoghi, stati d'animo e comportamenti della província americana, con qualche ovvietà ma anche con la commossa memoria di una realtà che si è trasfigurata in mito. Se il film non è pienamente riuscito è perché il lieto fine riflette l'obbligo commerciale dell'ottimismo (è qui che taluno apparenta Coppola a Frank Capra), non perché manchi di gradevolezza e di tenuta spettacolare. Fra i suoi meriti comprendiamo la recitazione di una Kathleen Turner elegante ed espressiva su vari registri, degli attori Nicolas Cage, Barry Miller, Kevin J. O'Connor, che si mettono con disinvoltura nei panni dei teenagers, la riapparizione di Maureen O'Sullivan (la saggia nonnina la quale consiglia la nipote di scegliere nel suo passato ciò di cui in futuro sarà orgogliosa), e di Leon Ames, l'arguto vecchietto per cui i viaggi nel tempo possono essere propíziati da una loggia massonica molto sui generis. Musiche di John Barry, foto di Jordan Cronenweth, scenografie d'epoca di Dean Tavoularis, e canzone del titolo ínterpretata da Buddy Holly.
Giovanni Grazzini


Rassegna Mimosa Forever
Angela
da una storia vera.

Italia 2002
di Roberta Torre. Con Andrea Di Stefano, Donatella Finocchiaro, Erasmo Lobello, Mario Pupella.


Uno di quei paradossi insanabili che rendono la città di Palermo un caso unico al mondo vuole che dal suo famoso Palazzo di Giustizia si possa godere di una buona panoramica sull'altrettanto famoso mercato rionale del Capo: un'autentica casbah a due passi dal vero e proprio centro storico.

Nel più distante, ma non meno noto, Ballarò Roberta Torre ha ambientato Angela. Da una storia vera. Paradosso nel paradosso, la regista, milanese di nascita ma palermitana di adozione, è riuscita ad analizzare come nessun altro mai le realtà più sordide e irredimibili di questa società malavitosa i cui esiti sono purtroppo riscontrabili nelle non poche lapidi sparse per le vie della città a ricordo dei caduti(da Petrosino in avanti, fino all'albero Falcone).
A margine c'è da notare che i tanti palermitani onesti sono così assuefatti a convivere con l'omicidio e la sofferenza da non avvertire una contraddizione in termini perfino quando si riversano festosamente ad ascoltare del buon jazz in un ex lazzaretto che non a caso veniva, ed è chiamato "Lo Spasimo".
Onore a Roberta Torre, dunque, che riesce a filmare con grande realismo le 'normali' giornate lavorative di una famiglia mafiosa che vende scarpe e droga con uguale naturalezza; e se c'è da accoppare (e raramente questo termine è stato reso tanto efficacemente per immagini come nel caso dell'unico assassinio cui si assiste in questo film) qualcuno che recalcitra per la qualità scadente della merce, pazienza: sono incidenti di percorso, quasi fastidiosi contrattempi.
Guai però a mescolare i sentimenti con gli affari.
E Angela, sposata all'anziano boss Saro Parlagreco, insieme al quale gestisce un negozio di calzature che funge da facciata, si fa irretire a poco a poco dal giovane Masino.
Si produce pertanto all'interno di un nucleo familiare mafioso un vulnus melodrammatico che porta alla luce il malessere esistenziale della donna (un'intensa Donatella Finocchiaro) travolta vieppiù dalla passione pur se orgogliosamente legata al suo codice morale. Resterà sola su una banchina del porto di Palermo ad aspettare il suo perduto amore sulle note di una lacerante "A felicidade".
Bravissimi tutti i comprimari con una citazione particolare per Erasmo Lobello (il cugino Mimmo),
Da antologia fisiognomica lo scambio di sguardi tra Masino e Santino Bonanno al loro primo incontro: vi è in sintesi la filosofia mafiosa.
Davvero una bella pagina di cinema.

Sergio Longo
www.mymovies.it

Dopo lo stile grottesco di “Tano da morire” e “Sud side story”, Roberta Torre con “Angela” ci mostra una nuova faccia del suo cinema: niente più attori improvvisati, balletti sgraziati o situazioni surreali, perché “Angela” è una storia vera e va raccontata con rigore. Rigore visivo, nella cura delle immagini, alla ricerca di una luce sempre diversa, che rispecchi in ogni momento lo stato d’animo della protagonista, e di contenuti, che ripercorrano, con pochi arricchimenti, il racconto fatto dalla vera protagonista. Infatti Angela esiste veramente e la sua storia è una vicenda come tante altre, nei sobborghi di una Palermo ancora squassata dall’imperversare dell’illegalità. Forse non c’è nemmeno troppa originalità in questa vicenda, ma quello che colpisce è il modo intenso e a tratti poetico con cui Roberta Torre la racconta. Sempre alla ricerca della sfumatura, la regista si concentra sui movimenti interiori dei protagonisti, facendo passare in secondo piano il tema sociale: “Angela” è prima di tutto una storia d’amore” - ci tiene a precisare Donatella Finocchiaro, per la prima volta sullo schermo, malgrado i tanti anni di teatro. E lei la vera Angela l’ha conosciuta proprio a Palermo, dove ancora vive: “E’ una specie di vulcano dagli occhi di ghiaccio”- racconta la Finocchiaro – “Appena mi ha vista, mi ha coperto di parole, descrivendomi con irruenza la passione che le ha fatto trasgredire le regole imposte da quel mondo di uomini in cui viveva”.
Ma la Torre non prende la parti di nessuno: non è importante capire chi abbia torto e chi ragione. Quello che a lei interessa è raccontare Angela, tenerla sotto l’occhio della macchina da presa, scrutarla, seguirne la gestualità e i sentimenti, oltre ogni giudizio morale.

Francesca Manfroni
www.spietati.it

Bianco & Nero
Italia 2007
di Cristina Comencini.
Con Fabio Volo, Ambra Angiolini, Aissa Maiga, Eriq Ebouaney, Anna Bonaiuto, Franco Branciaroli, Katia Ricciarelli.


Appena rientrata dal viaggio di lavoro in Africa, dove ho girato il documentario "Il Nostro Rwanda", sono andata a intervistare Jean Leonard Touadi, storico e giornalista. Jean Leonard è sposato con una donna italiana e hanno tre bambini.
Mentre l’intervistavo sul Rwanda, vedevo i bambini e la moglie passare nel corridoio, su un comò c’era la fotografia del loro matrimonio, la casa non aveva niente di etnico o del nostro modo di intenderlo.
Ridendo mi hanno raccontato i luoghi comuni che gli italiani dicono sulle coppie miste.
La stessa cosa mi è capitata a cena della mia amica Jeanne, rwandese e anche lei nel gruppo del viaggio.
Jeanne è sposata con un italiano, hanno anche loro due bambini.
Durante la cena abbiamo chiacchierato di figli, di scuole, di matrimoni.
Ho pensato che era la prima volta che avevo degli amici neri e che sarebbe stato bello raccontarli in una storia d’amore, fuori dal pietismo umanitario, dall’idea di una nostra silenziosa superiorità, di una loro dipendenza.
Il rapporto con miei due nuovi amici era molto più interessante, misterioso, ambiguo e caldo delle idee astratte su di loro.
Così è nato "Bianco e Nero", una storia d’amore tra un giovane uomo italiano piuttosto normale senza grandi idee sul tema dell’Africa e una donna senegalese che vive in Italia da dieci anni.
È una passione d’amore che però fa soffrire altre persone, dato che i due sono sposati, e scuote i nuclei familiari, sia quello senegalese che quello italiano, facendo emergere molte idee preconcette sulle differenze.
Alla base del film c’è la domanda che ho messo in bocca al personaggio interpretato da Fabio Volo: "Perché non abbiamo nessun amico nero?".
Volo lo chiede alla moglie, Ambra Angiolini, dopo aver letto di nascosto il diario della donna africana di cui si sta innamorando.
Nel diario Nadine si chiede la stessa cosa: "Perché non abbiamo nessun amico bianco?".
Da queste due domande incrociate nasce l’idea del soggetto che ho scritto con Giulia Calenda e Maddalena Ravagli: toccarsi, entrare in un contatto profondo, affascinante e difficile.
Io credo che la mancanza d’amore e di conoscenza, il non mischiarsi, vivendo vicini e lontani nelle città in cui non ci incontriamo, sia proprio uno degli aspetti più preoccupanti del razzismo della nostra epoca.
Le relazioni e i matrimoni misti, che sono le grandi e nuove occasioni del genere umano, fanno paura: persino in un paese così misto come l’America, non si è mai visto in un film una donna nera (veramente nera e non stinta) fare l’amore con un bianco .
"Bianco e Nero" è una commedia e anche la storia di un amore appassionato.
I due mondi distanti - italiano e senegalese - si difendono dalla passione dei due, pensano che siano attirati dalla novità.
Prevedono che non potrà funzionare e non si accorgono - anche i due innamorati a tratti non riescono vederlo - che sono solo un uomo e una donna in amore.
La commedia permette di parlare di cose contraddittorie, sfuggenti e rimosse, senza indicare subito i buoni e i cattivi.
Così i genitori di Ambra Angiolini nel film, interpretati da due magnifici attori come Anna Bonaiuto e Franco Branciaroli, o la madre di Volo, una Katia Ricciarelli irresistibile, sono gli italiani che vogliono essere buoni e pensano in verità cose che non osano dire.
La commedia permette di tirare fuori questi sentimenti senza spaccare il mondo in due, ma facendo anzi sentire che ognuno di noi potrebbe innamorarsi di qualcuno completamente diverso da sé e, messo in un’altra posizione, averne paura .
Cristina Comencini

Programmazione Autunnale

Ottobre 2009

lunedì 12/10/2009 ore 21.00 Vado sala Biblioteca
BIANCO E NERO di Cristina Comencini Italia 2007
rassegna Integrazione

lunedì 26/10/2009 ore 21.00 Monzuno sala Biblioteca
ANGELA di Roberta Torre Italia 2002
rassegna Mimosa Forever

Novembre 2009

lunedì 09/11/2009 ore 21.00 Vado sala Biblioteca
PEGGY SUE SI E' SPOSATA di F.F. Coppola USA 1986
rassegna Mimosa Forever

lunedì 23/11/2009 ore 21.00 Monzuno sala Biblioteca
QUATTRO MINUTI di Chris Kraus Germania 2006
rassegna Musica e Vita

siamo tornati!!!

E' pronta la nuova programmazione di ottobre/novembre 2009, iniziamo lunedì 12 ottobre a Vado, h. 21,nella sala della biblioteca comunale con BIANCO & NERO, di Cristina Comencini, vogliamo iniziare con leggerezza e ci sembrava giusto iniziare con un tema importante, ma trattato anche con mano lieve.
Proseguiamo con ANGELA, di Roberta Torre, storia passionale nell'ambiente dei mafiosi palermitani, con un'intensa Donatella Finocchiaro, questo a Monzuno, sempre in biblio, lunedì 26 ottobre, h. 21.
Novembre, lunedì 8, sempre alle 21, naturalmente in biblio, uno dei film più belli di Coppola: Peggy sue si é sposata, con un giovanissimo Nicholas Cage (e un'altrettanto giovane Jim Carey!!).
Chiudiamo il mese con un filmone drammatico (tedesco), ambientato in un carcere femminile, ma c'é un pianoforte... e allora non potevamo che farlo nella biblio di Monzuno, lunedì 23 novembre alle 21.