Basta che funzioni
(Whatever works)
di Woody Allen.

USA, Francia 2009

Con Ed Begley jr., Patricia Clarkson, Larry David, Conleth Hill, Michael McKean, Ewan Rachel Wood, Henry Cavill, John Gallagher jr, Jessica Hetch, Carolyn McCormick.
Ad un anno di distanza da Vicky Cristina Barcelona, Woody Allen torna sugli schermi con la regia di Whatever Works (BASTA CHE FUNZIONI) ed è sempre un piacere per gli spettatori. Torna a New York, con una sceneggiatura vecchia di oltre 30 anni – così dichiara lui stesso – scritta per l’attore Zero Mostel (brillante interprete di The Front – IL PRESTANOME del ‘76), morto nel 1977. Occhio e croce, tuttavia, ritengo Larry David più adatto al ruolo di alter-ego di Woody Allen, di quanto sarebbe stato il pur bravo Zero Mostel.
E ciò rivela ancora una volta l’abilità del regista nella scelta degli attori, giacché il film poggia, oltre che sul personaggio femminile di Melodie, quasi per intero sulla figura tragicomica di Boris Yellnikoff (perfetta sintesi di Woody Allen-Larry David campioni di umorismo yiddish), docente universitario a riposo riciclatosi come insegnante di scacchi che, con buona dose di cinismo mascherato d’ironia, giudica l’esistenza con lo stile del Woody Allen intellettuale di Manhattan (1979).
Con la differenza che sono passati trent’anni e la vita dell’uomo nel pianeta appare al protagonista l’eterno scacco matto di “una specie fallita” ad opera di un Dio assente o al massimo “arredatore di interni”. Rispetto ad allora, c’è in meno forse la curiosità di vivere, ci sono in più le tematiche care al Woody Allen degli ultimi anni: il ruolo potente del fato, della fortuna e del caso.
In tale contesto, la sceneggiatura sembra meno ispirarsi ad una storia pensata da oltre trent’anni e più vicina al filone inaugurato con Mighty Aphrodite (LA DEA DELL’AMORE del ’95), approfondito magistralmente dieci anni più tardi nei 124 minuti di Match Point, continuato, forse con minore efficacia, nelle tre successive pellicole: Scoop (2006), Vicky Cristina Barcelona (2008) e questo Whatever Works, accomunate tra loro dalla durata minima per un lungometraggio e soprattutto dall’esilità della trama.
C’è tuttavia una differenza in Whatever Works rispetto ai due precedenti lavori. Non solo, infatti, si torna a New York, cioè ad un habitat che il regista ben conosce, si torna anche alla freschezza di Mighty Aphrodite e al teatro greco.

I temi del destino, della fortuna, dell’amore e del caso vengono trasposti in una cornice che nulla lascia all’improvvisazione.
Chi, vedendo la Melodie (Evan Rachel Wood) di Basta che funzioni non pensa subito alla Linda Hash in arte Judy Orgasm (Mira Sorvino) di La dea dell’amore, nella versione italiana l’una e l’altra doppiate con straordinaria efficacia dalla voce di Ilaria Stagni?
Prostituta l’una (Judy), ingenua fanciulla del sud degli Stati Uniti l’altra (Melodie), entrambe accomunate da una visione semplice e innocente (nonostante tutto) del vivere e destinate a raccogliere il premio finale (o quasi) della fortuna e dell’amore, secondo un concetto caro all’ultimo Woody Allen: “Non sappiamo perché siamo al mondo e persino la nascita è legata al caso.
Tutto ciò che può rendere più accettabile l’esistenza della persona è benvenuto. Basta che funzioni”.
Nelle due pellicole, questa sorta di filosofia del carpe diem, segue uno schema quasi identico. Tutto si annuncia in un clima di tragedia greca per volgersi in commedia, quasi che un benevolo burattinaio, un occulto deus ex machina, a certe condizioni, s’incarichi di garantire alla “specie fallita” un minimo di felicità.
E se nel film del ’95 il finale sembra più l’antefatto di una commedia di Plauto, allorché i due protagonisti s’incontrano dopo tanto tempo – ignaro Larry che la figlia di Linda è sua figlia, ignara Linda che il bambino allevato da Larry è il figlio che aveva abbandonato – in Basta che funzioni il finale è costellato di festose maschere plautine con Boris nel ruolo (così come fa per tutto il film) di colui che di tanto in tanto si separa dagli attori per intrattenersi col pubblico, con battute che a rifletterle appaiono scontate (come quella che Marx e Gesù hanno ragione in via di principio, ma anche il torto di trascurare che l’uomo, una sorta di vermetto nel migliore dei casi, non è buono…), ma che ad udirle, per l’efficacia e la semplicità con cui sono dette, arrivano allo spettatore come altrettante pillole di saggezza.
Ed è proprio la seconda parte del nuovo film di Woody Allen, tutta intesa a preparare il finale, a zoppicare. Non solo per un calo di ritmo e di stile, ma anche e soprattutto per aver il regista attinto a piene mani dal bagaglio dell’ovvio e della post-modernità, quasi un tributo da pagare alla facile psicologia dei cosiddetti vermetti: il padre e la madre di Melodie che le diverse circostanze mutano da bigotti di provincia in spregiudicati e appagati fruitori della propria libertà, consentendo a Marietta (Patricia Clarckson) di mettere a nudo, per così dire, il proprio talento fotografico assaporando insieme le delizie di un ménage à trois, e al marito di scoprirsi felicemente gay. Melodie e Boris, dal canto loro, per gli intrighi di Marietta e il disegno improbabile della Fortuna e del Caso, tornano ad una normalità che li rende improvvisamente meno interessanti, ma con la possibilità, se tutto funziona, di percorrere un maggiore tratto di felicità.
Film, comunque, da non perdere perché opera di uno, forse, degli ultimi grandi maestri del Cinema.

Sergio Magaldi (dal blog: http://zibaldone-sergio.blogspot.com/ )
Open hearts
(Esker dig for evigt) Danimarca 2002
di Susanne Bier.
Con Sonja Richter, Nikolaj Lie Kaas, Mads Mikkelsen, Paprika Stehen, Stine Bjerregaard, Niels Olsen, Ulf Pilgaard, Ronnie Hiort Lorenzen, Pelle Bang Sorensen.


Dramma in dogma
Susanne Bier prende le mosse dal Dogma95 di Von Trier e Vinterberg; cosa ne resta dieci anni dopo la sua stesura? Il manifesto danese (riprese dal vero, niente scenografia, camera a mano, nessun suono riprodotto, illuminazione naturale, formato 35 mm), che nasceva come autentica provocazione contro il frasario imbalsamato del cinema alimentare – imporsi delle regole “assurde” per dimostrare che non esistono regole -, si è gradualmente ridotto, passo dopo passo, ad una sterile questione di principio oltranzista ed autocelebrativa (la successiva ed inconcludente circumnavigazione della Kidman in DOGVILLE, con camera in spalla a 360°, la dirà lunga sull’argomento), non priva di vezzi compiaciuti ma esteticamente fallimentari (la parodia involontaria di DANCER IN THE DARK).
Nella signora Bier, quindi, non riponevamo particolari speranze; eppure... aggirando la strada parabolico/morale, il film si accontenta (per così dire) di raccontare, facendo dell’intreccio stesso la sua chiave di volta senza secondo fine; nella delicata scelta della materia drammatica (con un’eco da LE ONDE DEL DESTINO) OPEN HEARTS riesce a non esagerare, districandosi in equilibrio su quel filo sottile che lo mantiene credibile e compatto sino in fondo.
Coniugando uno sguardo chirurgico (riflesso nello sfondo ospedaliero) alla virata calda e passionale (i diversi incontri amorosi), e presentando questo elementare contrasto allo spettatore senza filtro – quindi particolarmente toccante -, è un’opera viva e pulsante tanto da farsi perdonare le evidenti imperfezioni; la Bier sbaglia almeno un carattere (la figlia di Niels, intorno alla macchietta) e costruisce una manciata di snodi risaputi (tra tutti: le scene-madre piene di omissis e sospensioni, a rischio schematismo), nel gioco delle coppie non attinge certo da un bacino originale ma d’altronde lo ravviva con un gusto personale ed estremo, che non teme il tratteggio di una “strana” rivalità sentimentale (l’aitante medico ed il paralitico).
Il dato tecnico, forse di maggior interesse, è anche quello più sorprendente; indugiando con la camera a mano su corpi ed espressioni dei protagonisti, scavando patologicamente nei loro lineamenti, la Bier riporta un senso al cadavere del Dogma e ne propone una visione personale (nonostante qualche gratuità), fino ad estrarre almeno una sequenza d’impatto commovente (l’abbraccio “posticcio” tra Joachim e Cecille).

La migliore intuizione della regista si incarna però nelle repentine svolte oniriche che suggellano il narrato, preziose perché quasi impercettibili, che per un attimo annullano il colmo di dolore e, dopo la tragedia, consentono ad una mano paralizzata di librarsi nell’aria, ancora.
Non ci sono parole per Sonja Richter, diamante in un cast di solidità inusitata.
Un film irrinunciabile per sapere che la Danimarca oggi non è solo Lars Von Trier. Per fortuna.
Emanuele Di Nicola – spietati.it

Dogma 95 (Dogme 95) è il nome di un movimento cinematografico creato e fondato su precise regole espresse in un manifesto pubblicato nel 1995 (da cui il nome) dai registi danesi Lars von Trier, Thomas Vinterberg, quindi corrente non nata ed evoluta spontaneamente come nella maggior parte dei casi nella storia del cinema.
Il decalogo, al quale aderirono subito anche Søren Kragh-Jacobsen e Kristian Levring, è spesso definito anche con il significativo nome di Voto di Castità, che lascia intendere lo spirito del movimento, ed è stato stilato e firmato ufficialmente a Copenaghen, lunedì 13 marzo 1995.
L'obiettivo, ambizioso, era quello di "purificare" il cinema dalla "cancrena" degli effetti speciali e dagli investimenti miliardari. Niente luci, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, rifiuto di ogni espediente al di fuori di quello della camera a mano... Le regole da seguire per raggiungere questo obiettivo sono state espresse in un manifesto scritto.
C'è da dire che già dal primo film le regole sono state violate, ed ogni regista, chi più chi meno, ha ricorso a degli espedienti (musica, luci, scenografie) vietati nei propri film.
Come detto sul sito ufficiale, in realtà ogni regista può interpretare il decalogo a suo modo.

Il 20 marzo 2005, a Copenaghen, i registi hanno firmato il documento che, dieci anni dopo, ha sancito la fine del patto.
I dieci anni di esperienza della Dogma 95 hanno portato alla produzione di circa 40 film. Spesso questi erano riferiti solamente con un numero (Dogma 1, Dogma 2, ecc.) anziché con il titolo vero e proprio.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


Rassegna Mimosa Forever
LA ZONA

Spagna, Messico 2007
di
Rodrigo Plà .

Con Daniel Giménez Cacho, Maribel Verdù, Carlos Bardem, Daniel Tovar, Alan Chàvez, Mario Zaragoza, Marina de Tavira, Andrès Montiel, Blanca Guerra, Enrique Arreola, Gerardo Taracena.

L’opera di Rodrigo Plá, presentata alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia, appare come un film fantapolitico dai risvolti raffinati e sofferti. Pur con qualche eco del clima di persecuzione di 1984 e delle situazioni orrorifiche - metaforiche dei film di Romero, La zona si presenta come totalmente realistico e credibile, per poi instillare nello spettatore la sgradevole sensazione di stare assistendo ad una lenta caduta verso la degradazione morale di un’intera società. Il giovane protagonista, figlio di uno degli abitanti della zona, si troverà faccia a faccia con ciò che per il suo microcosmo è lo spauracchio e al contempo il capro espiatorio: uno dei ladri, il più giovane ed il solo sfuggito alla furia dei suoi vicini. E sarà un confronto tra la sua morale e quella dei suoi genitori, tra la sua conoscenza del mondo e il suo personale senso di pietà e comprensione.

Dietro di lui, gli adulti, in conflitto fra difesa dei propri privilegi e umanità. Come in The village, non è la fuga dalla violenza che salva chi si crede al di sopra del bene e del male, perché ciò che è insito nell’uomo non entra solo dalle brecce nei muri, ma emerge anche dalle crepe presenti nell’anima degli uomini. Il film si presenta, in ogni fotogramma, come una struttura solida, calibrata ed elegantemente ragionata: non scade nel banale thriller, né nella fiction di denuncia. Centra perfettamente il bersaglio senza essere retorico, grazie anche ad alcune scelte di regia che risultano toccanti senza mai suonare false. Anche se purtroppo, sembra che per Plá la società sia destinata alla totale disfatta morale. Gli spunti narrativi sono molti, e risolti nei modi più coerenti e coesi. I temi del il mondo dei ricchi, che si regge su ipocrisia, violenza e arroganza (quasi senso di onnipotenza), del danno subito dagli adolescenti, educati con valori morali parziali ed inumani, e

della disperazione dei poveri, umiliati fino all’annientamento, trovano un intreccio che non delude ed un gran finale che, lontano anni luce dal semplicismo con cui si potrebbe chiudere un normale action movie con venature di denuncia sociale, lascia lo spettatore con un reale vuoto nel cuore, desolato di fronte alla presa di coscienza della totale caduta della civiltà nel mondo borghese. Ma La zona lascia anche con una scintilla, come una luce, che ci permette di mettere in discussione la nostra idea di giustizia. In un caso come questo (raro, ma possibile), il Cinema diventa l’Arte che permette di indagare il Mondo.

Enrico Ruffato – nonsolocinema.com

La zona è un film che non fa sconti a nessuno.

Sembrerebbe raccontare una minuta ed immaginaria porzione del Messico, e viceversa salta completamente i confini geografici, puntando il dito contro il mondo occidentale nel suo complesso e nella sua complessità. Con un’opera prima che sorprende per rigore ed intensità, al punto da guadagnarsi Il Leone Del Futuro, il premio che a Venezia marca il regista più promettente, Rodrigo Plà firma un lavoro di fantascienza sociale – se così possiamo qualificare quell’insieme di film che ispezionano, rielaborano, radicalizzano e poi esibiscono alcune inquietanti tendenze presenti all’interno delle società. In questa categoria reperiamo film come Dogville, di Von Trier, o L’invasione degli ultracorpi, di Siegel, o Fahrenheit 451, di Truffaut. Film apertamente apocalittici, incubi ad occhi aperti, a metà tra tragedia ed horror, che rivelano cosa potrebbero diventare le società se confermassero e più tardi estremizzassero alcuni aspetti non particolarmente democratici. Ovviamente, questi film mettono in scena un futuro prossimo, o un lontano passato, e piuttosto che giocare con il realismo, preferiscono accostare le forme dell’allegoria o della metafora, facendo vedere tutto in chiave fantastica - tanto che i film, alla fine, somigliano ad un monito: un’immagine facilmente rintracciabile nella memoria, adatta a guidarci se qualcosa del genere dovesse proporsi.

Ma Plà vira felicemente verso le forme del realismo, e costruisce una storia che si radica nel nostro presente. Senza neanche lavorare tanto di immaginazione, il regista inquadra la

Zona, un quartiere curato e pulito, clamorosamente immacolato, del tutto fuori luogo rispetto ad una Città del Messico disegnata come un girone dell’inferno: nera, tristissima, con mozziconi di case impilate in un tetris inestricabile che s’irradia ovunque. La Zona esiste perché un muro divide il quartiere dal resto della città ed una pattuglia di vigilanti sorveglia il confine attraverso gli occhi delle telecamere. Solo che il giorno in cui tre giovanissimi si introducono per rapinare, l’altissima borghesia che abita la Zona, senza ricorrere alla legge, decide di farsi giustizia da sola, uccidendo due ragazzi e processandone il terzo, in un finale nerissimo come il sangue che si secca e non va più via.

Girato a mano, livido del colore della cenere, La Zona è un durissimo atto di accusa al nostro modo di vivere e percepire gli Altri. È il film che rivela il mito dell’uomo occidentale: il mercato aperto e la società chiusa, dove a percorrere le distanze sono solo le merci ed i flussi finanziari, mentre sui confini impenetrabili, ritagliati via dalla beatitudine, premono le masse dei disperati.

Ed il cinema di Plà ha questo di feroce: che è una fantascienza prossima ad avverarsi. Ed il senso di prossimità sgorga dall’uso sapiente del linguaggio cinematografico: la contiguità tra le inquadrature mosse da documentario e le immagini asettiche delle telecamere di sorveglianza rendono l’idea che tutto stia avvenendo adesso, sotto i nostri occhi. Occhi che, dopo i titoli di coda, hanno perso la loro innocenza: hanno già visto cosa sarà, cos’è nel presente, un mondo di mura e sangue.

Giuseppe Zucco – sentireascoltare.com

Rassegna Tempi Moderni