Into the wild
Nelle terre selvagge

USA 2007
di Sean Penn. Con Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Jena Malone, Brian Dierker, Catherine Keener, Vince Vaughn, Kristen Stewart.

E' delle terre selvagge che Sean Penn vuole parlarci in quest'ultima fatica, nuovo film di grande spessore della Bim, che riesce sempre a catturare piccoli e grandi capolavori da distribuire nelle sale del nostro paese. "Into the Wild" si apre appunto su terre selvagge, con immagini meravigliose di paesaggi sconfinati, entra nelle vene in maniera lenta, ma inesorabile, facendo infine scoprire l'anima, i suoi territori altrettanto incontrollati, imprevedibili. Penn scrive e dirige la storia di Christopher McCandless, adattando per il grande schermo il romanzo di Jon Kracauer “Nelle terra estreme”. Ed è così che prendono corpo i sentimenti e le diverse sensazioni di un ragazzo che, fresco di laurea, decide di abbandonare la vita agiata e andare all'avventura senza soldi, né compagnia in cerca di felicità e verità, convinto che ciò che più conta nella vita non è "essere forti, ma sentirsi forti, essersi misurati almeno una volta". L’intera vicenda è presentata attraverso una serie di flashback, divisi in capitoli: è chiaro che quello di Chris è un viaggio iniziatico, il cui epilogo è ben noto a molti. Il giovane nasce realmente nel momento in cui parte (capitolo I), il suo vagare in solitudine lascia intuire che è spinto oltre che dal gusto per l'ignoto, anche dalle ferite inferte dalla famiglia e da una società ipocrita, materialista e opprimente. Fin dalle prime immagini è percepibile l'idiosincrasia del protagonista nei confronti di chi, come la madre e il padre, vive solo di apparenze. È per questo che cambia il suo nome e diventa Alexander Supertramp. Con lo zaino in spalla Alex passa da un luogo all'altro e lascia un segno che solo le persone straordinarie possono regalare a chi le incontra. Scorre così l'adolescenza (capitolo II), mentre l'età adulta (capitolo III) si apre con la necessità di provare a tornare ancora una volta nella società dapprima rifiutata. Chris capisce allora di sentirsi realmente escluso nel profondo, perché non sopporta la violenza, la falsità e forse non riesce a fare i conti con il suo passato. Penn, dal suo canto, sembra dargli ragione opponendo al degrado della città la solennità di una natura, comunque e in ogni caso vincente nella sua grandezza. Mentre il protagonista legge "Il richiamo della foresta", la splendida fotografia di Eric Gautier incanta. Nel suo viaggio "l'eroe" conosce la famiglia (capitolo IV), incontrata per strada, più autentica ai suoi occhi di quella reale.
Infine la conquista della saggezza (capitolo V) chiude il cerchio, Alexander Supertramp ha capito che "dal bene viene il meglio" e che c'è ancora una parte d'umanità in grado di amare. Ma ormai non può tornare indietro, deve ancora mettersi alla prova, compiere l'avventura estrema, rimanere nuovamente solo, magari dentro un pulmino dal quale non uscirà più, ma che per sempre lo farà sognare.
Laura Calvo
www.ecodelcinema.com

Le domande ultime dell'esistenza sono poche e semplici. Nel proprio percorso, ognuno di noi si troverà suo malgrado a chiedersi cosa lo rende umano, da cosa ricava pienezza, di cosa ha bisogno. Tutto questo, da sempre, è determinato anche e forse soprattutto, fra il casuale ed il costretto, da qualcosa di fondamentalmente insondabile, un insieme di fattori genericamente racchiudibili in quel termine usato per comodità ma necessariamente indefinito: la società. L'individuo si scopre così in vario modo delimitato dai princìpi, dalle categorie e dai concetti portanti del luogo e del tempo che, da animale sociale, abita. Opposto a questi è un altro termine, sfuggevole stavolta perché da definire autonomamente, l'istinto, l'esser-per-sé in distanza dagli altri, essere libero e incondizionato nel cosa e nel come. Christopher McCandless (Emile Hirsch) si è dovuto (o si è voluto) porre queste domande, si è dato una risposta chiara, definitiva, e una meta. L'esser-per-sé è un ritorno all'antitesi sociale: la natura. Nella solitudine dei vasti spazi, vivere il momento fermo nella sua pura bellezza, e solo in esso trovare la propria semplice, immutabile compiutezza. Chris ha scelto l'Essere, la libertà. Più che di istinto, si potrebbe parlare al contrario di perfetta razionalità, per ricondurre ciò che è incomprensibile ad unità. È forse la società «razionale»? È davvero guidata da una «mano invisibile» per mezzo della quale tutto trova una sua giustificazione complessiva? O è forse un contratto, una convenzione che nonostante tutto mantiene immutato il caos, la barbarie dell'uomo-contro-uomo, un equilibrio fittizio? Della «società», elemento costitutivo, al di sopra del singolo, è la famiglia. Unità base fondamento stesso della socialità, primo gruppo intermedio fra l'individuo e il più ampio complesso di rapporti sovrastante. Forma primogenia, risalente ai tempi dei tempi, per definizione la basilare «società naturale». Ma dove finisce il suo essere «naturale» e inizia il suo essere «sociale», la sua costruzione ad hoc sulla base di definizioni variamente fabbricate? È questa la vera domanda che ha spinto Chris a lasciare i genitori (William Hurt e Marcia Gay Harden) e l'amata sorella (Jena Malone), appunto la domanda fondamentale sull'unità sociale fondamentale dalla quale, nel bene o nel male, tutto deriva. Quello che è successo nella sua famiglia, o meglio come la sua famiglia ha vissuto sin da quando era piccolo, ha trovato per lui finalmente una spiegazione, un segreto, che gliela rende insopportabile: scoprirsi non il frutto di un progetto consapevole e perfetto, naturale, ma risultato di un accidente, della distruzione di un altro nucleo famigliare, infine di qualcosa che è schiavo del tempo che scorre rivelando la supremazia delle cose sulle persone. In questo spazio si perde la definizione di sé, il vero Io è distrutto, si è quello (cose) che è altrove stabilito: una macchina nuova, i corsi cadenzati della vita (diploma, laurea, Harvard), l'orologio. Se tutto è sostanziale bugia, bisogna allora tornare all'unità che precede il sociale, alla simbiosi dell'Io con l'infinito, uno spazio attorno non contingentato da artificiosità di cose e persone, e dunque al pieno rapporto con sé. Chris così parte, semina tracce e le disperde, fa in modo di perdersi e non esser più trovato. La sua meta è l'Alaska, il Nord disabitato. Ma scegliendo il viaggio per scegliere la sua individualità, ha automaticamente creato inconsapevolmente uno iato fra quello che voleva raggiungere, l'essere fermi nella frontiera Nord per fermare il proprio Essere, il tempo, la vita, e quello che vivrà effettivamente, la molteplicità del mondo in cui tutto scorre. Nella testa di un figlio benestante degli anni '80 giunti alla loro fine, tempo di Bush padre dopo Reagan, un American Psycho post litteram proiettato negli anni '90, l'accidentalità da lui non voluta porterà inevitabilmente ad un lavoro da colletto bianco, una nuova famiglia, un'immagine vincente. Non si sa con quale reale senso, anzi si sa già che un senso non ci sarà. Ma in quest'immagine che Chris dà per scontata, quella che la «società» gli renderà impossibile rifiutare se non rifiuta per prima la società stessa, è postulata l'idea di un'altra immutabilità, quella della mancanza di scelta dentro la società. Questa scelta deriva dalla collisione dell'Io con altri Io, e attraverso l'incontro porta all'Essere vero, ossia l'essere che si forma lungo un tragitto non ancora scritto. Si può sapere chi si è senza avere un altro Essere di riferimento sul quale parametrare e misurare la propria umanità, nel cui sguardo riconoscersi? Chris in cuor suo è convinto di sì: nel viaggio incontra delle persone, ma il percorso verso la meta fissa non può esserne deviato, non può perdere la sua razionale progressione. Le persone sono accidenti, la natura è eterna. Vedrà fiumi, foreste, neve e deserti. Non sa ancora che quando sarà il momento di vedere quello che è davvero importante, questo sarà in lacrime e volti umani, quelli sui quali risplende la luce di Dio. Qualsiasi cosa Dio sia.
Alberto Di Felice
www.cine-zone.com

Rassegna Tempi Moderni


LE ROSE DEL DESERTO

Italia 2006
di Mario Monicelli.

Con Michele Placido, Giorgio Pasotti, Alessandro Haber, Fulvio Falzarano, Moran Atias, Tatti Sanguinetti.

L’ultimo film di Monicelli è uno sguardo disincantato sulla guerra, siamo nel 1940, in Libia, quella che allora era considerata una colonia italiana. Girato nel 2006 a 91 anni, la produzione volle un regista d’emergenza da affiancargli nella peggiore eventualità. E’ un addio dichiarato, dopo 65 regie e 58 sceneggiature. LE ROSE DEL DESERTO è ispirato al romanzo autobiografico de Il Deserto Della Libia di Mario Tobino (lo stesso dal quale Dino Risi una ventina d'anni prima aveva tratto il film Scemo di guerra), che riporta Monicelli alle sue personali vicende vissute in Abissinia, ricordi trasposti con poesia e amarezza.

Questo vuol essere il nostro modo per ricordare e omaggiare il grande regista e l’uomo, che ha saputo vivere e morire a modo suo.

Cineclub Fata Morgana

Una doverosa premessa: dovevamo aspettare un “grande vecchio” come Mario Monicelli per poter finalmente respirare un’aria di cinema diversa dalla solita minestra riscaldata dell’attuale produzione italiana, a base di commediole o filmetti aspiranti ad essere d’autore.
Il maestro della commedia agrodolce dirige infatti, alla veneranda età di 92 anni, un film lucido ed ironico che illustra uno stralcio della Storia del nostro paese attraverso quella di piccoli uomini impegnati, durante la Seconda Guerra Mondiale, sul fronte della Libia.

LE ROSE DEL DESERTO, che prende il titolo dalle rocce levigate dal vento fino ad assumere una forma simile appunto a quella delle rose, racconta la vita di un equipe di medici italiani che attendono feriti dal fronte allestendo un ospedale da campo. Il tempo scorre lentamente ed, in particolare, vediamo un giovane medico (Giorgio Pasotti) incuriosito dai luoghi e dalla gente locale mentre il suo maggiore (Alessandro Haber) è concentrato unicamente a scrivere lettere d’amore alla moglie lontana e (forse) infedele; il resto dei soldati inganna il tempo ascoltando messaggi dal comando con la radio malfunzionante e tentando di stringere rapporti con la popolazione locale schiva e sospettosa. Tra i medici arriverà poi un sagace prete domenicano (Michele Placido) il quale, da anni in Libia, si occupa dei bambini e di dare l’estrema unzione ai moribondi. Attraverso gli occhi dei protagonisti assisteremo alla disfatta dell’esercito italiano e tedesco contro le forze inglesi, con i medici ed infermieri costretti a ripiegare e tornare, purtroppo anche drammaticamente, a casa.

LE ROSE DEL DESERTO racconta con grazia ed ironia piccoli episodi di vita, sia militare che umana, attraverso la quotidianità di un piccolo agglomerato di persone che attende la guerra giorno per giorno. Monicelli mescola le vicende belliche con quelle dei vari protagonisti, affidati all’interpretazione di un cast di attori –famosi e non- molto in forma, con caratterizzazioni naturali e moderate: è un piacere, ad esempio, vedere un Michele Placido spiritoso ed incisivo che recita senza andare sopra le righe come spesso fa, oppure un Giorgio Pasotti più maturo rispetto ai suoi precedenti film sebbene abbia un tono ancora incerto della voce; discorso diverso invece per Alessandro Haber che interpreta un personaggio volutamente caricaturale e, sebbene simpatico, un pò fuori posto nella dimensione narrativa del film.
Monicelli riserva diverse e piacevoli sorprese al suo pubblico: il regista non rinuncia alla sua vena di lucida ironia caustica ed antimilitarista illustrando gli sforzi e le difficoltà dei soldati semplici, con i problemi quotidiani di essere su un fronte straniero, confrontati invece alle figure dei loro ufficiali (colonnelli e generali) che si rivelano gente inetta ed inaffidabile. Degno di plauso, da questo punto di vista, il macchiettistico ritratto di un generale stupido, borioso ed irresponsabile (titolare anche di un buffo tormentone “motociclistico”) interpretato efficacemente dal critico Tatti Sanguinetti, tramite il quale Monicelli espone la sua opinione a
riguardo di una guerra ridicola e di un esercito italiano da operetta con uomini mandati a morire in maniera futile.

Nonostante i pesanti problemi di budget che si palesano con scenografie approssimative, è evidente che il film sia stato realizzato con uno sforzo produttivo rilevante (ed anche raro per il nostro attuale cinema), massimizzando le risorse disponibili e mostrando diversi mezzi bellici d’epoca e paesaggi bellissimi, con riprese effettuate tutte in esterni (e non in teatri di posa) nel suggestivo deserto tunisino.
Concludendo (anche per le dolenti note, lasciate alla fine), LE ROSE DEL DESERTO è una pellicola gradevole e ben interpretata, che diverte e fa pensare, ma ci dispiace anche dire che Monicelli non graffia più come una volta ed il suo film si rivela un po’ vago, finendo per lasciare poco nello spettatore dopo la sua visione: le cause sono diverse e vanno da un tono narrativo troppo leggero ad una sceneggiatura senza un punto di vista ben focalizzato, da un finale nonché un paio di sviluppi precipitosi (forse per problemi di budget) fino ad alcuni concetti non espressi in maniera marcata.

Paolo Pugliese – occhisulcinema.it

IL CAIMANO

Italia 2006
di Nanni Moretti.

Con Silvio Orlando, Margherita Buy, Jasmine Trinca, Nanni Moretti, Giuliano Montaldo, Michele Placido, Cecilia Dazzi.

Un Caimano in ascolto

Chi è il Caimano? Facile: Berlusconi. E chi è Berlusconi? Uno che rifiuta la realtà costruendone una nuova di zecca da rifilare al prossimo, uno che a domande precise risponde insultando l'interlocutore e cambiando argomento, uno che detesta chi non lo adora a sufficienza. Esattamente come Bruno, che vede nello script (appena sfogliato) di Teresa soprattutto un pretesto per rimandare il proprio fallimento professionale e chiude gli occhi sul disastro del proprio matrimonio, consumando una vendetta plateale quanto infantile. Il Caimano siamo tutti noi, o meglio, c’è un po’ di Caimano in ognuno di noi: anche per questo il personaggio è interpretato da tre attori, uno dei quali è lo stesso regista (che peraltro, in macchina con Teresa, non ascolta quello che gli dice la donna, preferendo canticchiare e straparlare à la Moretti). Ha ragione il produttore polacco (Jerzy Stuhr, praticamente nella parte di se stesso): il problema è l’Italietta che ama i sogni d’oro e odia il duro risveglio (la demolizione del set), non (solo) l’eroe a reti unificate capace di approfittare della situazione. Il finale è a questo proposito ancora più esplicito: il Caimano parla e si dilegua, sono gli altri ad agire per lui (un V per Vendetta al contrario, dunque). Moretti gioca con il mondo del cinema (un magnifico cast per uno stuolo di piccole parti) e con i tasselli della composizione [la lavorazione del film di Teresa è intervallata dalle sequenze (volutamente sgangherate, anche troppo) delle opere scult prodotte da Bruno e dai frammenti della sceneggiatura, in cui si concentrano i momenti visivamente più rilevanti (la valigia misteriosa, il pavimento ricoperto di lettere)], ma il meccanismo tende a incepparsi: i ritratti privati suonano artefatti (i soliti bambini invariabilmente adorabili e naturalmente più maturi dei genitori, la coppia gay turbolenta ma affiatata cui si oppone lo sfascio della famiglia tradizionale), l’universo dei cinematografari è popolato da figurine spesso dimenticabili (una per tutte: il divo porcellone), la parentesi documentaristica (Berlusconi al Parlamento europeo) è superflua didascalia.

Un film irrisolto, ma non da liquidare nel nome (o nel timore) di un pregiudizio.

Stefano Selleri

www.spietati.it

Ecce Moretti

Premessa importante: "Il Caimano" non è un film su Berlusconi, ma è un film di Nanni Moretti. Può sembrare scontato, ma è apprezzabile vedere come la forte personalità dell'autore non si sia lasciata condizionare più di tanto nel costruire un film in cui la contemporaneità è centrale ma non sovrasta le motivazioni dei personaggi. Certo, si può discutere della furbata di fare uscire il film a due settimane dal voto. L'attesa spasmodica, la efficacissima campagna promozionale incentrata su silenzi e mistero, la manipolazione dei mass-media, la strumentalizzazione politica, faranno molto bene agli incassi, ma rischieranno di deludere chi varcherà la soglia del cinema con la necessità di vedere un film che dica finalmente "qualcosa di sinistra". Non perché il lungometraggio manchi di un punto di vista forte, ma perché alla fine scuote meno del previsto. Al di là dell'evento mediatico, "Il Caimano" è anche un'opera interessante. Il cinema di Moretti è, come sempre, molto personale; politico come in precedenza, perché immerge i personaggi nel presente, con un grigiore che si ripercuote dal luccichio ingannevole delle tele-ballerine alle difficoltà del quotidiano. Ma senza il peso di un'ideologia da teorizzare, lasciando che i personaggi vadano per la loro strada. La sensazione, a caldo, è che la carne al fuoco sia tanta, forse troppa, e che non tutto arrivi in modo calibrato. C'è il tentativo, in parte riuscito, di fondere una dimensione privata con gli interrogativi della collettività. Difficile farlo senza incorrere nelle banalità del già visto e sentito. Per fortuna Nanni Moretti evita le trappole del comizio e non ambisce al documentario. L'occasione di attaccare la scena politica attuale è offerta dalla scelta, non originale ma efficace, di un collante meta-cinematografico. Uno dei personaggi è infatti una giovane regista alla ricerca di un produttore per un film che racconti l'epopea di Berlusconi e il declino a cui ha portato il paese. Il rischio di uno sterile parlarsi addosso, con il giochino delle citazioni e dei camei illustri, è grande, ma la autoreferenzialità, pur notandosi, non disturba. Il difetto principale degli spezzoni di film trash diretti dal protagonista (un bravissimo Silvio Orlando) è che sono lunghetti e non così spassosi, ma la cornice permette di dire in modo trasversale cose importanti ("Da dove vengono tutti questi soldi?") evitando la petulanza di chi è già ideologicamente schierato. In questo senso la critica al potere di Moretti è lucida e ben condotta, anche se marginale al racconto, imbevuto di personaggi che comunque ne escono indenni, parlano ogni tanto del presente ma non si sporcano direttamente le mani. Il film finisce infatti per sbilanciarsi verso le strade rodate di un capolinea affettivo, di cui volutamente si tacciono le cause e messo in scena solo nelle conseguenze. Anche in questo caso la scelta stilistica è ammirevole, ma il rischio di una leggerezza e di un dolore costruiti a tavolino è sempre nell'aria. Così come appare un po' superficiale la descrizione dei meccanismi produttivi dell'ambiente cinematografico e troppo calcata la piacioneria dei bambini. Ma con Nanni Moretti è così: prendere o lasciare. E nell'asfittico panorama contemporaneo trovare un artista capace di esporsi a suo modo, con antipatia, coerenza e decisione, è cosa comunque preziosa. Del resto, come dice lo stesso Moretti, anche attore, "chi sa sa e chi non sa non vuole sapere", quindi inutile pensare che un film debba mostrare ciò che è già, da tempo, sotto gli occhi di tutti. Anche se...

Luca Baroncini

www.spietati.it

rassegna Ecce Nanni


LA DOPPIA ORA
Italia 2009
di Giuseppe Capotondi.
Con Ksenia Rappoport, Filippo Timi, Antonia Truppo, Gaetano Bruno, Fausto Russo Alesi, Michele Di Mauro, Lorenzo Gioielli, Lidia Vitale, Giampiero Iudica, Roberto Accornero, Lucia Poli, Giorgio Colangeli.

Ci rendiamo conto che affermare che La doppia ora fosse il migliore dei film italiani in concorso a Venezia 2009 non dice granché, posto che quelle italiane erano, nel complesso, le scelte più deboli del cartellone, cionondimeno i suoi meriti, anche se considerati in relazione al panorama cinematografico nostrano e non in assoluto (fosse pure il piccolo assoluto veneziano), rimangono degni di attenzione.
Quali sono questi meriti?
Innanzitutto la dissacrazione della famigerata ambientazione che, una volta tanto, funge da sfondo e non alimenta il portato di significati, puntandosi invece sulla gravità dell’atmosfera e sul tono da imporre alla narrazione; in secondo luogo l’asciuttezza della scrittura, mai furbescamente divagatoria, ma in totale aderenza al meccanismo che, pur nel suo ricalco di uno schema oggi noto, risulta coerente e senza smagliature; infine, e soprattutto, la struttura narrativa (strettamente legata alla matrice generica) e il suo farsi mezzo di indagine introspettiva dei personaggi che mette in scena, meccanismo che scandaglia, non sputa di getto macchiette, ma pone gradualmente lo spettatore di fronte ad una verità - logica e, intimamente, psicologica - nel suo farsi, nel suo costruirsi. Il punto di vista del pubblico sui protagonisti è plasmato a suon di svolte narrative, la loro anima rivelata in concatenazioni di contraddizioni profonde, a galla ad ogni colpo di scena. Perciò appellarsi alla già citata esattezza (sublime e coatta) della complessità dell’intreccio per proporre con facilità la nenia critica dello “sterile esercizio formale” non tiene conto, oltre che di un minimo di originalità di pensiero, del contesto produttivo/geografico in cui il film si inserisce: quel cinema nazionale, appunto, solitamente popolato da personaggi da commedia all’italiana (arte sfociata in metastasi, permanente alibi culturale) anche a contatto con il dramma (a Venezia se ne aveva un limpido esempio ne Il grande sogno di Placido), abitato da caratteri che sono, queste sì, forme calibrate per affogare i propri difetti (e con questi, per effetto domino, ogni dimensione del carattere) nella risata o, più subdolamente, nel sorriso assolutorio, esercizi, questi sì, di equilibrismo, già detti e posti su traiettorie narrative che illustrano e, mai (o quasi), fanno esperire, coinvolgono, chiamano in causa. A voler prenderci sul serio è una questione di politica della visione (e non solo): ne La doppia ora l’artefatto cinematografico non ha pretese di imporre particolari sguardi sulla realtà, ma quelle di indurre in chi guarda domande su quel che accade, contrattando la sua posizione etica rispetto agli eventi, modulando personaggi sfuggenti delineati dalla costruzione narrativa, non da auto-proclamazioni diluite nel testo. E questo non è poco.
Certo, a voler cercare il pelo nell’uovo, questo è un film che avrebbe funzionato meglio con attori sconosciuti: far morire il protagonista maschile dopo nemmeno mezz’ora sarebbe un grande azzardo solo se tale protagonista non fosse Filippo Timi e quindi interiormente non sapessimo che costui presto o tardi tornerà in scena (Capotondi non è mica Hitchcock che Janet Leigh la fa fuori davvero prima della metà del film): questo mette già una colossale pulce nell’orecchio circa la costruzione del film (che si rivela puntualmente quello che si pensa sia), perché elimina la grossa ambiguità su cui verte l’idea centrale della sceneggiatura. Molto Femme fatale di De Palma (c’è pure la scena in vasca) e rilettura deformata in trip da coma della realtà che fa un po’ Mulholland drive, risolvendo poi à la Shyamalan (facile considerare la spiegazione finale un’eco de Il sesto senso e filiazioni varie), non mancando, in questo lungo segmento, alcune sottolineature un po’ ingenuotte (gli annunci mortuari, il prete – che altri non è, nella realtà, se non il padre di Sonia – che officia il funerale della donna – che infatti per lui è morta), La doppia ora (il titolo già rievoca una dimensione parallela) si colloca dunque nella recente tradizione del film da rileggere alla luce delle agnizioni successive, avendo parlato precedentemente ed essendosi rappresentato un universo mentale: in esso il senso di colpa mette in scena una realtà virtuale che vediamo nella parte centrale del film, in cui i dati del passato tornano in modo estemporaneo, scorretto, incoerente, generando il disorientamento della protagonista e l’incertezza dello spettatore che ha deciso di accettare il gioco senza porsi domande. Ed è proprio in questo che, con consapevolezza o meno circa il suo essere uno scarto rispetto al circostante, La doppia ora tenta un discorso differente: perché, ad essere spietati e non fanatiche mammolette, se è evidente che il film, come detto, soffra la derivatività che smaccatamente manifesta, senza avere – ci mancherebbe – né sguardo ed afflato né tantomeno libertà di astrazione dei suoi alti riferimenti, dall’altro lato non possiamo non tener conto di quanto sia costretto Capotondi alle regole dettate dalla vendibilità sul mercato e il suo lavoro ridotto, per palese discrepanza tra intenti e possibilità, al frustrante prodotto provinciale, con vette di ottima fattura (la scena della sepoltura) e una diffusa sensazione di vorrei ma non posso.


Giulio Sangiorgio & Luca Pacilio


Rassegna Tempi Moderni



Aprile
Un film di Nanni Moretti. Con Silvio Orlando, Nanni Moretti, Silvia Nono, Pietro Moretti, Corrado Stajano. Italia 1998
Sembra semplice, ma non lo è. Sembra un diario minimo, una confessione a bassa voce, una lettera a un amico tenuta dentro a lungo e finalmente spedita, e forse lo è. Aprile, di Nanni Moretti, sfugge alle definizioni, scivola fra le mani. Alcuni si sono irritati, molti vi si sono rispecchiati. Diavolo di un “autarchico”, sempre lì lì per realizzare il “grande” film, e poi ancora a tentare di capire se stesso, l’Italia, il privato che si intreccia con il pubblico, tra rabbie, delusioni, speranze, risate. Per fortuna, infatti, c’è il sorriso. Sempre. Perché è aprile - finalmente! - nella vita di Nanni, già “splendido quarantenne”, arrivato ora alla paternità. Aprile, capito?, non settembre come in Woody Allen: le gemme che sbocciano, non le foglie che ingialliscono. Perché, come ricorda un perfido amico tenendo un metro fra le mani (ogni centimetro un anno...), non resta moltissimo: inutile perdersi in sterili elucubrazioni, inutile continuare a prendersela con chi non ha ancora imparato, e non imparerà mai, a stare al mondo. Meglio tardi che mai, però: si vivrà ancora più intensamente, magari al ritmo di un mambo. Si avrà così meno tempo da sprecare pensando alla stupidità imperversante (televisioni e giornali omologati, il brutto che ci circonda), e si coglierà l’occasione per dire sì alla vita. Mai Moretti ha ripreso in modo così coinvolgente il bello. Sono dettagli, come l’Isola Tiberina, Venezia, il Po, intravisti sullo sfondo delle recenti vicende italiane, dalla vittoria del Polo nel ‘94 a quella dell’Ulivo nel ‘96, ma risaltano ancora di più, in quanto fanno da contrappunto dialettico alla piccineria della storia pubblica. Arriverà anche maggio? Può darsi: il musical sul pasticciere comunista degli anni 50, per il momento solo abbozzato, un giorno o l’altro, forse, si farà.

Luigi Paini

Cinque anni dopo Caro diario Nanni Moretti torna, con Aprile, a descrivere quello che vede, legge, sente intorno a sé, la sua personale visione della società, insomma. Il film si apre col successo elettorale di Berlusconi nel 1994 (coincidente con la prima canna del regista, allora splendido quarantenne), continua con le traversie psicologiche di Moretti in attesa del primogenito Pietro, che nasce quasi in contemporanea con la prima storica vittoria del Centrosinistra – ma all'euforia politica generalizzata il regista, braccia alzate, sulla sua Vespa, confonde e sovrappone la sua gioia di neo-padre, urlando «Quattro chili e duecento grammi!» –. Nanni Moretti parla del suo sogno di girare un musical ambientato negli anni Cinquanta sulla vita di un pasticciere trozkista, poi accantonato per un documentario storico-sociale: 'missione' che lo porta a girare riprese in Puglia dopo il tragico incidente alla nave albanese, ed a filmare controvoglia la dichiarazione d'indipendenza della Padania. Il risultato è questa breve pellicola autobiografica, ricca come sempre di critiche: alla classe dirigente della Sinistra, formatasi negli anni Settanta a suon di episodi di "Happy days"; alla paurosa uniformità della stampa – esemplare la scena in cui Moretti incolla in un unico colossale foglio i ritagli dei giornali più disparati –; ad un certo tipo di cinema – stavolta cadono pietre su Heat - La sfida e Strange days –. Aprile è un semplice divertissement, certo, ma ispirato ed incivisivo: dispiace solo che finisca troppo presto...
Paolo Boschi
Sulle mie labbra

(Sur mes lèvres) Francia 2001
di
Jacques Audiard. Con Vincent Cassel, Olivier Gourmet, Emanuelle Devos, Olivier Perrier, Olivia Bonamy.

Il gioco dei generi

Amo la sensazione di soddisfazione, quello stupido sorriso che rimane impresso sul volto quando esci dal cinema dopo aver visto un bel film, magari uno di quelli che non ti eri precipitato a vedere il giorno stesso della sua uscita. E Sulle mie labbra quel sorriso stupido me lo ha lasciato per parecchio tempo... un Vincent Cassel che, come sempre, lascia sbalorditi, una bravissima Emmanuelle Devos che giustamente si è meritata il César per questa interpretazione, riprese imprevedibili, capaci di cambiare a ogni istante e la pura fisicità. Carla (Emmanuelle Devos) è una donna quasi totalmente sorda, lavora in un ufficio odioso, dove subisce le angherie continue dei suoi colleghi ed è sola, mangia da sola, vive da sola, beve da sola. Ma un giorno ha la fortuna di poter assumere un assistente. Lo vuole scegliere, ordinare su misura... in fondo, perché no? Ci si può recare in un'agenzia matrimoniale per "ordinare" un compagno, e allora perché non fare lo stesso in un ufficio di collocamento? Poi arriva lui, Paul (un Vincent Cassel decisamente abbrutito), ex galeotto dalle maniere non proprio cortesi... E così scopriamo che la scialba Carla, la segretaria che nessuno degna di uno sguardo, osserva tutti i minimi particolari, è una perfetta regista incapace di accontentarsi delle briciole. Il primo particolare che stupisce è apprendere come tutto, per Carla, passi attraverso il suono, le parole. Ci saremmo aspettati probabilmente una predilezione per le immagini, eppure Carla al lavoro risponde al telefono, vive la sera le storie inventate a partire dai racconti "esotici" della sua migliore amica. Il mondo è suono e basta togliere gli apparecchi acustici per dimostrare la lontananza da un mondo che non si ama. Dall'idea iniziale di donna incapace di vivere una propria vita, intenta a vivere immersa in quella degli altri, ci rendiamo conto, pian piano, che Carla vuole a tutti i costi appropriarsi della propria esistenza, ma secondo le proprie regole, senza cedere mai agli stereotipi sull'amore o sul lavoro. Così tutti i suoi sforzi sono nel tentare di cambiare l'uomo che ha di fronte e nel fargli accettare le proprie regole. Il velo di assurdità che sembra aleggiare intorno a queste due figure, due emarginati da un mondo che, solo per convenzione, viene ritenuto "normale", continua nella seconda parte del film, che abbandona i toni del melodramma per abbracciare quelli del noir.

Un noir decisamente moderno, che alterna inquadrature distanti e fisse a inquadrature di una vicinanza a volte claustrofobica. Il ritmo serrato della nuova deriva del racconto, l'organizzazione del colpo, il nuovo impiego in una discoteca, il pedinamento visivo del nemico da una terrazza, si alterna costantemente ai respiri dei primi piani o delle inquadrature su particolari del corpo. I corpi sono braccati in una fisicità amplificata che, verso il finale della pellicola, diviene quasi insostenibile e l'abbraccio finale arriva come una liberazione. Sulle mie labbra è un film interessante, sensuale, per niente prevedibile e Audiard un regista che dimostra si saper giocare fluidamente con i due mostri del genere, il melodramma e il noir, mescolandoli, allontanandoli, celandoli.

Donatella Valeri - offscreen.it

La deformazione fisica nella filmografia convenzionale serve a preannunciare l'instabilita' mentale del personaggio: lo storpio è, il piu' delle volte, una figura meschina che malcela il suo segreto in una fisicita' precaria. Shamalan ne ha fatto racconto nell'osteogenesi imperfetta di Elijah Price, Bryan Singer indizio nel camminare zoppo di Roger "Soze" Kint, Oliver Stone ha dipinto il Vietnam con la cicatrice del sergente Barnes, Scorsese la mutazione psicologica con i capelli di Travis Bickle. Gli esempi sono tanti, Audiard conosce bene genere e materia e con Sulle mie labbra spinge su questo modello, giocando con la rappresentazione e declinando a suo piacimento l'organismo tipo di questo personaggio. Una splendida Emmanuelle Devos interpreta Carla: una segretaria sorda messa all'angolo dalla city parigina, isolata dai colleghi. Il regista francese scende in campo facendo della vera e propria "politica" dell'autore e descrivendoci una donna succube dell'estetica metafisica dozzinale di chi le sta attorno, costretta ad additare la sua mutilazione fino a perdere il contatto con il suo corpo, astrazione ben sintetizzata dal rumore bianco del suo apparecchio acustico. La menomazione pero' non è nell'udito di Carla ed è questo che Audiard ci vuole raccontare. La strada battuta per dimostrare questa tesi si dipana inevitabilmente attraverso le ossessioni filmiche del regista francese: la presa di coscienza e il bisogno di comunicare. Il conflitto della protagonista viene infatti risolto dall'ingresso in scena dell'ex carcerato Paul (Vincent Cassel) un altro emarginato che subisce la sua natura ma che possiede quello che manca a Carla, l'udito.

L'incontro che emancipa e libera si puo' considerare un altro archetipo della filmografia audardiana: quello che saranno infatti la pianista e il padrino Corso nei suoi due film successivi, qui è un Teddy Boy delle banlieue. Il confronto con Paul sovverte quindi la costruzione classica di un personaggio che era destinato alla perdizione, trasforma il suo difetto in dote, in presa di coscienza. La salva. Carla e Paul utilizzano le loro "disabilità " per riscattarsi con chi li ha messi da parte, Audiard esaudisce il loro bisogno di comunicare in una direzione inversa rispetto a quella canonica, insegnando ai suoi personaggi a fraternizzare con il loro corpo e ritorcendo questo nuovo linguaggio contro chi li ha stigmatizzati, dimostrando che la vera menomazione è nello sguardo di chi ha giudicato basandosi sulla sola apparenza. Sulle mie labbra è un film che si dichiara libero e che è libero sin dal primo minuto, un divertissement attraverso i generi, dal melò al polar, e allo stesso tempo un opera complessa che critica un sistema mettendo alla berlina il suo metro di giudizio. Come sempre Audiard chiude il film con un finale splendido, spiazzante e che sintetizza un meccanismo al suo collasso: le labbra del tutore di Paul, addetto a raccogliere le sue firme e ossessionato da una burocratica puntualita' si rivolgono ai due protagonisti parlando della moglie, della sua fuga e del suo amore, mentre il suo corpo, invece, viene ammanettato e portato via dai poliziotti.

Sergio Proto – nocturno.it

Programmazione autunno - inverno 2010

Settembre 2010
21 settembre 2010 h. 21,00
Vado, Sala Biblioteca comunale

SULLE MIE LABBRA (Sur mes levrès) di Jacques Audiard
Francia 2001

30 settembre 2010 h. 21,00
Monzuno, Sala Biblioteca comunale

APRILE di Nanni Moretti
Italia 1998

Ottobre 2010
13 ottobre 2010 h. 21,00

Vado, Sala Biblioteca comunale

IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON di David Fincher
USA 2008

28 ottobre 2010 h. 21,00
Monzuno, Sala Biblioteca comunale

LA DOPPIA ORA di Giuseppe Capotondi
Italia 2009

Novembre 2010
9 novembre 2010 h. 21,00
Vado, Sala Biblioteca comunale

IL CAIMANO di Nanni Moretti

Italia 2006

24 novembre 2010 h. 21,00
Monzuno, Sala Biblioteca comunale

TUTTE LE MATTINE DEL MONDO di Alain Corneu

Francia 1991

Dicembre 2010
9 dicembre 2010 h. 21,00

Vado, Sala Biblioteca comunale

RACCONTO DI NATALE di Arnaud Desplechin

Francia 2008

22 dicembre 2010 h. 21,00
Monzuno, Sala Biblioteca comunale

INTO THE WILD di Sean Penn

USA 2007

Giugno e Luglio 2010

MONZUNO 16/06/2010
Sala Biblioteca ore 21.00
COME DIO COMANDA di Gabriele Salvatores
Italia 2008

VADO 29/06/2010
Biblioteca Comunale ore 21.00
VUOTI A RENDERE di
Jan Sverak
Repubblica Ceca, Gran Bretagna 2007

MONZUNO 6/07/2010
Sala Biblioteca ore 21.00
COUS COUS di Abdel Kechiche
Francia 2007
Come dio comanda
In una landa desolata del Nord-Est Italia, tra cave di pietra, case sparse e anonimi centri commerciali, vivono un padre e un figlio. Rino Zena, disoccupato e ostinato, educa Cristiano, un adolescente timido e irrequieto che i compagni schivano e le ragazzine umiliano. Soli contro il mondo e contro tutti, hanno un solo amico: Quattro Formaggi, un disgraziato offeso da un incidente con i fili dell'alta tensione e ossessionato da Dio, dal presepio e da una biondissima pornodiva. Uniti da un amore viscerale, Rino e Cristiano tirano avanti un'esistenza orgogliosa che reagisce alla prepotenza del prossimo e all'ingerenza dei servizi sociali. Dentro una notte di pioggia e fango una ragazzina cambierà per sempre i loro destini. Gabriele Salvatores raccoglie per la seconda volta la sfida di Niccolò Ammaniti. Eppure non si tratta veramente di una sfida, piuttosto di un completamento, di uno sviluppo, di una naturale trasposizione dalle parole alle immagini. Il regista milanese si mantiene infatti sostanzialmente fedele al dettato del romanzo omonimo, con qualche minima variante e alcuni interventi chirurgici. La sua operazione consiste nel lasciarsi il tempo di trattare ciò che ha scelto di conservare e nell'evidenziare la natura “cinematografica” del libro.
Così dopo il viaggio verso la coscienza e la disubbidienza (all'ingiustizia) di Io non ho paura, Salvatores gira un('altra) favola nera, affollata di lupi, agnelli e bambine col cappuccio rosso, che procede in direzione contraria e parallela dentro un cono d'ombra e nella risonanza panica del paesaggio. Dopo essere andato a Sud, l'autore si sposta nel lontano e mitizzato Nord, palesandolo e rivelandone i tratti spaventosi. Un luogo di sassi e fango abitato da tre personaggi immersi in un sordo rancore nichilista, che si trascinano giorno dopo giorno tra voglia di integrazione e profonda insicurezza. Come dio comanda descrive le ferite e le miserie di “precari” dell'esistenza sgradevoli e violenti. Una tipologia impossibile da integrare che riesce a trasmettere lo strazio della propria condizione umana per la verità che esprime e che vive di espedienti in una realtà dove tutti sono diventati troppo ricchi. L'impetuoso padre di Filippo Timi porta in sé una ferita che i servizi sociali hanno diagnosticato ma che non si preoccupano di guarire. Nessuno lo protegge o lo sostiene nel quotidiano, nessuno gli offre una chance per uscire da un'esistenza impedita a ogni possibile normalità. Zena è un soggetto inaffidabile, costretto a lottare contro la logica implacabile di un assistente sociale che minaccia di togliergli il figlio, unica e reale possibilità d'amore, e il loro elementare diritto di essere una famiglia.
Poi, il lampo di un temporale infinito scatenerà un evento al di sopra delle loro possibilità, qualcosa di inatteso che ha il carattere del destino. Coniugando una tragedia privata con il non senso collettivo, Salvatores si pone il problema di come continuare a fare del cinema a partire dalla realtà e dalle sue storie, senza ricadere nell'ambiguità morale della mimesi del reale. Imprime quindi alle immagini uno sguardo etico, che rispetta la complessità dei corpi messi in scena e degli accadimenti di cui si fanno veicolo. Quest'ordine di considerazioni si produce come volontà di guardare il prima delle vite dei tre protagonisti, che sfocia nella tragedia quotidiana del loro durante.

Sulla cattiva strada

Amore furente tra padre e figlio in una provincia del Nord Italia, terra desolata ai piedi delle montagne e tra i boschi: fabbriche, capannoni industriali, casette a schiera, centri commerciali, immense segherie, cumuli di alberi tagliati e accatastati. Diluvi. Cielo grigio. Gente ignorante e brutale dalle idee storte, avviata su quella che Fabrizio De Andrè chiamava «la cattiva strada». Il padre spesso disoccupato, violento, prepotente, xenofobo, turpiloquente, non crede nella libertà ma nella pistola; il figlio adolescente cerca di somigliargli e di essere stimato da lui, si vogliono bene «di un amore torbido e oscuro». Vivono insieme, da soli. Il padre tenta di educare il figlio come può, come sa: lo incita alla vendetta fisica e all'opportunismo, lo comanda a scappellotti. Il figlio lo adora, lo venera, lo imita. E' loro amico un ex operaio colpito alla testa in un incidente e divenuto mezzo matto (Elio Germano). Una lunga notte terribile, piena di pioggia e di sangue, cambierà tutto per tutti e tre.
E' una storia interiore e nello stesso tempo collettiva, che disegna la mala disposizione di una popolazione insieme con l'interiorità crudele o folle dei personaggi: l'effetto è molto forte e può anche condurre a degli equivoci italiani.
All'origine del nuovo film che Gabriele Salvatores ha diretto dopo quattro anni di silenzio c'è il romanzo Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, asciugato, privato di altri personaggi, condensato sull'essenziale rapporto padre-figlio e sulla rozza brutalità di certa gente del Nord. Filippo Timi è bravissimo nel personaggio del padre, il debuttante Alvaro Caleca impersona bene il figlio; Elio Germano, il matto, è poco sorvegliato, ogni tanto lezioso (ma è bello che si sia fabbricato due braccia e mani fittizie per abbracciarsi, per accarezzarsi, e che abbia una mania per le dive del porno televisivo). Il film duro dà a volte un'impressione di maniera nel ritratto dei personaggi maneschi e parafascisti: ma è costruito e realizzato benissimo, con una forza grande, appassionante.
Da La Stampa, 12 dicembre 2008
di Lietta Tornabuoni La Stampa

Rassegna Tempi Moderni

The Hurt Locker

di Kathryn Bigelow. USA 2008

Con Jeremy Renner, Anthony Mackie, Guy Pearce, Ralph Fiennes, Brian Geraghty. David Morse, Christian Camargo, Evangeline Lilly.

Ci voleva una storia di guerra e di coraggio, di adrenalina e di corpi dilaniati, di orrori quotidiani e di paradossale assuefazione a quegli stessi orrori, perché una donna vincesse finalmente l’Oscar per la miglior regia e il miglior film, trascinandosi dietro per giunta altre quattro statuette, e non solo minori. Ci voleva una regista che “gira come un uomo”, come si dice con slogan un po’ macho dai tempi del memorabile Point Break, e un film che racconta la guerra in Iraq da un punto di vista così inedito e controverso che The Hurt Locker ha incassato appena venti milioni di dollari in tutto il mondo (132.000 euro in Italia), perché la statuetta finisse in mani femminili (detta oggi sembra incredibile, ma il mondo ha visto prima un presidente nero degli Stati Uniti che una regista premiata con l’Oscar).

Ma ci voleva anche un sistema di voto nuovo per spingere gli Oscar, da qualche anno ormai sempre meno “hollywoodiani” e sempre più vicini ai gusti dei grandi festival come Cannes e Venezia, a fare una scelta così coraggiosa. A danno fra l’altro di un concorrente come Avatar, che non è solo un megacampione d’incassi ma è anche un bellissimo film.
Da quando i titoli candidati come miglior film sono passati a dieci, infatti, i circa 6000 votanti dell’Academy non si limitano più a scrivere sulla scheda il loro preferito ma elencano tutti e dieci i titoli in ordine di preferenza. Sicché, alla fine di un complesso gioco di conteggi, il prescelto paradossalmente può essere non il film che ha ricevuto più preferenze al primo posto, ma il più massicciamente votato in seconda o terza posizione. Un sistema complicato ma probabilmente più democratico che potrebbe aver favorito l’outsider Kathryn Bigelow. Mentre le 10 candidature hanno rilanciato l’interesse su questo premio famosissimo e ormai un po’ polveroso aprendo la porta a film “piccoli” ma meno scontati come District 9, An Education o, per l’appunto, The Hurt Locker.

Che poi il primo trionfo “al femminile” nella storia degli Oscar coincidesse con il duello fra due registi che una volta erano marito e moglie, sembra l’invenzione di uno sceneggiatore della vecchia guardia (per non parlare del fatto che in buona parte del mondo la notizia è arrivata l’8 marzo..). Ma gli Oscar del 2010 non passeranno alla storia solo per il loro risvolto rosa. Il 2010 è anche l’anno che vede finalmente affermarsi Jeff Bridges, alla sua quinta candidatura, e pazienza se forse George Clooney in Tra le nuvole era ancora più bravo. È l’anno che sconvolge tutti i pronostici escludendo capolavori come Il nastro bianco di Michael Haneke o Un prophète di Jacques Audiard per dare la statuetta del miglior titolo straniero a un film argentino poco noto.

Ed è, per finire, l’anno che premia, inevitabilmente, il magnifico Up della Pixar.

Lasciando nell’ombra un film ancora più sofisticato e irresistibile, presto in uscita anche in Italia, cioè Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, il regista dei Tenenbaum e del Treno per il Darjeeling (e già il fatto che uno dei migliori registi di oggi passi dal cinema “live” a una favola con pupazzi ci dice quanto sia libero, vitale e creativo il cinema d’animazione di questi anni). L’America di questi anni sta cambiando, o almeno ci prova. Gli Oscar, se non Hollywood, sono già cambiati.

Fabio Ferzetti

(Il Messaggero, 9 marzo 2010)


Nel finale di The Hurt Locker si alza il tono metaforico: il civile inginocchiato e il sergente James sono entrambi uomini-bomba. L’uno a livello materiale, l’altro ideale; ormai lo si è capito, James non può vivere senza disinnescare. Il film di Kathryn Bigelow è un ordigno bifronte, da una parte la detonazione immediata e dall’altra un denso polverone figurato. Più che le sovrapposizioni narrative (come la netta “sostituzione del figlio” con un bimbo iracheno), a risultare decisivi sono gli accostamenti visivi; in cerca del contatto diretto con il rischio, James si fa precedere dal lancio di un fumogeno bianco che sprigiona esattamente la stessa nebbia dell’esplosione: vuole anticiparsi, implicitamente già desidera il boato che otterrà nel finale. Il medesimo trattamento di inconsce proiezioni è applicato a ogni personaggio: Elridge, marchiato dalla morte del superiore, è afflitto dall’atavico timore di fare la stessa fine; Sanborn si autoinganna e solo infine ammette l’aspirazione alla paternità. In generale, The Hurt Locker è durissimo da vedere – sequenze thriller e tensione insopportabile: i primi dieci minuti ci scoppiano addosso, graniti di terra e imperlati di sangue – e ancora più duro da raccontare, perché punta forte sulle affermazioni negative; oltre alla tripartizione dei protagonisti, davvero di scarsa importanza (uno è ferito, l’altro torna a casa, il terzo sceglie la guerra), bisogna dunque ascoltare ciò che viene taciuto: l’origine delle cicatrici di James, la sua ostinazione paradossale sulle sorti di uno sconosciuto, il grigiore privato di Sanborn appena celato dai modi di circostanza (“Se muoio non se ne accorge nessuno”). E soprattutto l’ultimo dialogo: la riflessione sull’indole deviata del sergente è una contro-scena madre, dato che i soldati si interrogano a lungo, azzardano ipotesi e non trovano risposta. “Non ci penso”, dice James: la regista ha sfrattato il messaggio dall’Iraq in fiamme, tutti restano segnati solo dall’aderenza al pericolo che prima avevano respinto. Ovvero, come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba.

Emanuele Di Nicola

(gli spietati.it)

Rassegna Tempi Moderni

Programmazione Aprile - Maggio 2010

Aprile 2010
Martedì 13 aprile 2010 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale
Diverso da chi? di Umberto Carteni, Italia, 2008
Rassegna: Uguali/Diversi

Giovedì 22 aprile 2010 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
L’onda(Die welle) di Dennis Gansel,Germania 2008
Rassegna: Tempi Moderni

Maggio 2010
Martedì 4 maggio 2010 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale
Irina Palm di Sam Garbarsky, GB/GER/FR,ITA 2007
Rassegna: Mimosa forever

Giovedì 20 maggio 2010 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale
The Hurt Locker di Kathryn Bigelow,USA 2008
Rassegna: Tempi Moderni

L'Inverno 2010 non ama il cinema....

Cari Soci,
poche righe per rafforzare lo spirito cinefilo che ci anima.
Questa stagione invernale ci ha severamente punito con nevicate ad hoc nelle date previste per le nostre proiezioni...
Cercheremo di recuperare, almeno le produzioni che noi giudichiamo "da non perdere".
Non perdiamoci di vista.
Ci sono novità in arrivo....
Arrivederci a presto
Programmazione invernale
Riproponiamo alcuni film che non sono stati proiettati per maltempo
Febbraio 2010

Giovedì 11 febbraio 2010 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale

IRINA PALM di Sam Garbarsky
Lussemburgo, Belgio, GB, GR, FR, Italia, 2007
Rassegna: Mimosa forever

Giovedì 25 febbraio 2010 h. 21,00
Monzuno, sala biblioteca comunale

FROZEN RIVER (Fiume di ghiaccio) di Courtney Hunt
USA 2007
Rassegna: Mimosa forever

Marzo 2010
Martedì 9 marzo 2010 h. 21,00
Vado, sala biblioteca comunale

LE DONNE VERE HANNO LE CURVE
(Real woman have curves)
di Patricia Cardoso
USA 2002
Rassegna: Mimosa forever


Lunedì 22 marzo 2010 h. 21,00;
Monzuno, sala biblioteca comunale

ANGELA di Roberta Torre
Italia 2002
Rassegna: Mimosa forever

Tutti battiti del mio cuore
(De battre mon coeur s'est arreté)
di Jacques Audiard
Francia 2005
Con Romain Duris, Aure Atika, Emanuelle Devos, Niels Arestrup, Jonathan Zaccai.

Metronomo

Tom ascolta pop-elettronico mentre le sue mani si muovono con naturale frenesia al ritmo degli studi di musica classica che sta preparando per un’audizione.
Ogni rumore diventa impercettibile, la dimensione è ovattata: esiste solo l’essenza della Musica, quella che ti attanaglia senza via di scampo e ti attrae e spinge sempre più in fondo nel suo vortice di affascinante seduzione.
Mani violente si sciolgono in movenze dolci e carezzevoli nei confronti di quei dannati tasti di pianoforte che permettono ad un pianista di mettersi in contatto con la musica, quel tramite incantato che se da un lato non potrai fare a meno di amare alla follia, dall’altro sarà l’oggetto al quale griderai mille volte la tua rabbia per quella scala che mette in difficoltà la tua mano, per quel fastidio provocato dall’eccessiva sollecitazione e studio, per quel tendine sotto tensione che sei consapevole tra poco ti tradirà.
TUTTI I BATTITI DEL MIO CUORE si insinua nei rapporti fra una persona e il mondo, fra una persona e la musica, fra la musica e il mondo: le combinazioni infinite dei rapporti interpersonali si fondono e si articolano nel corso della vicenda in una storia dall’evoluzione placida e meticolosa, come lo studio di una rapsodia o di una sinfonia. Costante e testardo, il protagonista vede cozzare in sé e nel mondo che lo circonda gli opposti che mantengono vivo il mondo, comprendendone il ruolo inevitabile ma non rassegnandosi ad una sua sottomissione.
Tom vive d’istinto, di sensazioni tattili, afferra la sua vita a ritmo di musica, si tratti di quella che lo accompagna nelle pulsanti traversate in auto attraverso la città notturna colorata delle luci al neon o di quella che lo culla nei momenti di studio, nei quali faccia a faccia con uno spartito, affronta il passato, il presente e il futuro affidandosi a quelle singole frasi, a quei singoli respiri per scollegarsi dal mondo che lo circonda per concentrarsi esclusivamente sul suono, sulla tecnica, sulla forma, sullo stile.
Virgilio nella selva di arpeggi e accordi è in questo caso una guida le cui parole incomprensibili e perentorie danno corpo e forma al rigore musicale, alla ferrea disciplina che si cela dietro l’esecuzione, alla determinazione che ad un occhio esterno può apparire snervante e che in realtà è l’unico mezzo per entrare totalmente in contatto con la musica: è quindi nei consigli in cinese enfatizzati da gesti e sguardi che Tom si riavvicina alla filosofia della disciplina dei musicisti, di chiunque riesca a chiudere i propri occhi e ritrovare dietro le proprie pupille file e file di crome e biscrome e riesca a sentir risuonare nelle proprie orecchie melodie e accompagnamenti.
L’elemento umano si attorciglia al filo rosso della musica, realistico schiaffo all’universo trasognato e meraviglioso del cosmo dei suoni: il dramma quotidiano, la violenza, la brutalità riporta l’intera dimensione filmica al grigiore macchiato di sangue delle occupazioni degli stabili e degli sgomberi, delle perdite di denaro, del tradimento delle amicizie, dei furti, delle minacce, delle vendette, degli omicidi.
La sintesi del percorso del film di Audiard è insita in una delle sequenze visivamente più coinvolgenti: Tom, che come qualunque musicista si tiene lontano da tutto ciò che può danneggiare l’esecuzione, osserva le proprie mani ferite ed insanguinate.
La magia della musica si dovrebbe spegnere qui, nella “dissacrazione” delle mani di un pianista: ma non è così.
Si continua a suonare, si continua a viaggiare lungo gli infiniti e dolorosi binari della musica.
Come sempre è stato e sempre sarà.

Priscilla Caporro
www.spietati.it

rassegna Vita & Musica

Non desiderare la donna d’altri
(Brode/Brothers) di Susanne Bier
Danimarca 2004

Con Conie Nielsen, Ulrich Thomsen, Nicolaj Lie Kaas, Bent Mejding, Sarah Juel Werner.


Questa volta la traduzione italiana del titolo di un film straniero (danese, vincitore del Premio del Pubblico al Sundance Festival 2005 e apprezzato al Festival di San Sebastian nel 2004) suona meglio dell’originale.
Peccato solo che, pur di stimolare la curiosità del pubblico, finisca col tradire il significato dell’opera.
Non desiderare la donna d'altri (in originale "Brødre", letteralmente "Fratelli"), è la storia comune (non nel senso di banale ma “che accomuna”) di Michael - militare di carriera, preferito dal padre, bella moglie, due figlie, una casa nuova - e Jannik, secondogenito buono a nulla, una condanna sulle spalle, nessun buon proposito nel cassetto.
Scritto da Anders Thomas Jensen ma diretta e “ideata” da Susanne Bier, quest’opera forte e a tratti violenta colpisce per l’abilità con la quale la regista ha saputo mescolare le atrocità della guerra alla delicatezza e alle sfumature sottili dell’animo umano, rapporti d’amore compresi.
Il primo personaggio ad esserci presentato, con tutte le caratteristiche del suo ruolo, è Michael (Ulrich Thomsen), il fratello “buono” comandato a partecipare ad una missione in Afghanistan con le truppe delle Nazioni Unite.
Jannik (Nikolaj Lie Kaas), il cattivo, è appena uscito di prigione.
Tra i due fratelli corre buon sangue e l’atmosfera in casa è tutto sommato serena anche se il padre dei due manifesta spesso il proprio disappunto nei confronti del figlio minore.
A tavola, durante la cena che precede la partenza di Michael, si parla del valore della guerra e della disciplina militare. Jannik, le cui posizioni non concordano con quelle di famiglia, si trova a discutere con Sarah (Connie Nielsen), moglie bella e perfetta del fratello.

Poi la partenza e la tragedia: l’elicottero su cui viaggia Michael precipita. L’uomo è dato per morto.
Seguiamo il suo funerale e la reazione della famiglia, scopriamo che Jannik non è un mostro e che la bella Sarah ha anche lei le sue debolezze.
Parallelamente Michael, che è sopravvissuto ma è stato fatto prigioniero, è sottoposto a prove estreme che lo cambieranno per sempre.
I vecchi equilibri sono saltati, le certezze annullate.
Poi il ritorno dell’eroe e di nuovo il misurarsi con una realtà in continua mutazione, alterata da sentimenti, comportamenti e umori, fragilissimi, dei protagonisti.
Sono in realtà i caratteri dei due fratelli ad essere messi sotto la lente di ingrandimento da una regista che si dimostra ancora una volta (dopo l’esperienza dogma di Open Hearts) attenta e capace.
"Trovo affascinante", ha detto la Bier, "raccontare come il quotidiano possa essere bruscamente interrotto da eventi casuali, talvolta brutali, e come ci si possa relazionare a essi e ai cambiamenti che questi provocano".
La trama in sé non risulta particolarmente originale (e non possiamo addentrarci di più nei dettagli senza svelare aspetti che toglierebbero suspense alla visione), ma i personaggi vengono così ben caratterizzati che riusciamo a partecipare alle loro sofferenze interiori e finalmente, come accade sempre più di rado, è il finale a dare valore al film.
Ben scritto e interpretato, commuove per sottrazione.
Emozione con naturalezza.
Come ha avuto modo di dire la regista: "il mio obiettivo è indagare la realtà e trovarvi spunti di speranza, affermare la possibilità della vita sulla morte. Perché quanto difficile possa essere, non si può prescindere dagli aspetti leggeri e gioiosi della vita: è questa capacità a renderci umani".
L'uso della camera a mano, differentemente dall'abuso spesso ingiustificato a cui si assiste in questi ultimi anni, accompagna e sostiene sia i momenti tragici che quelli più delicati.
La buona riuscita del film è dovuta anche all'interpretazione dei due affermati attori danesi Ulrich Thomsen e Nikolaj Lie Kaas, apprezzati anche come attori teatrali; accanto a loro, al suo primo film nella terra patria e nella lingua natia dopo le avventure hollywoodiane (la Lucilla de Il Gladiatore e il Capitano Osborne di Basic), un'affascinante Connie Nielsen, che deve abbandonare le pose statuarie per affrontare toni più drammatici.

Claudia Russo
www.offscreen.it

rassegna Mimosa Forever