Quattro minuti
(Vier minuten) Germania 2006
di Chris Kraus. Con Monica Bleibtreu, Hannah Herzsprung, Sven Pippig, Richy Muller, Jasmin Tabatabai, Vadim Glowna, Nadja Uhl

L'ottantenne Traude Krüger si reca ogni giorno presso il carcere femminile di Lickau dove insegna a suonare il pianoforte a un numero sempre più esiguo di allieve. Il corso rischia di essere chiuso ma la donna, grazie anche alla solidarietà di un guardiano, riesce a convincere il direttore. Un giorno però sarà la stessa guardia carceraria, massacrata di botte da una detenuta, Jenny, a cambiare idea. Jenny è infatti in carcere accusata di omicidio. Ha uno straordinario talento per il piano ma è preda di crisi di violenza che la gettano nello sconforto. Traude, inizialmente diffidente nei suoi confronti, deciderà di insistere riuscendo, nonostante i vincoli burocratici e non posti dal personale del carcere, a portarla fino alle soglie di un Concorso per giovani pianisti. C'è però un altro ostacolo che pare insuperabile: Jenny ama svisceratamente l'hip hop col quale riesce ad esprimere sulla tastiera la sua creatività e la sua rabbia. Traude invece lo detesta. I film sul rapporto insegnante-allievo/a in cui l'uno cerca di spingere l'altro a esprimere il suo talento grazie al rigore rischiano sempre di fare la stessa fine: conflitti, incomprensioni, progressi e poi il trionfo che fa contenti tutti. Non è così in 4 minuti dove la dinamica narrativa è molto più complessa e affronta direttamente non solo il tema dell'arte e di chi ne è dotato ma anche quelli, altrettanto importanti, dell'influsso di un passato il cui peso è difficile da portare e della rieducazione in ambito carcerario. Traude e Jenny non sono due personaggi da "romanzo di formazione" trasposto sullo schermo. Sono due esseri reali (la sceneggiatura ha vinto nel 2004 un importante premio in Germania) fatti di nervi, di rigidità, di scarsi abbandoni e di improvvisa (per Jenny) quanto incontrollabile violenza. Sono due donne ferite nel profondo che cercano (l'una chiudendosi in un rigore quasi ottocentesco e l'altra cercando la regola della nessuna regola) una via d'uscita. Che passa anche attraverso il rifiuto dell'altro come persona. Come se fosse possibile insegnare e apprendere senza mettersi in relazione al di là della 'tecnica'. Le due protagoniste saranno costrette reciprocamente a scoprirsi ad accettare pregi e difetti dell'altra (anche quelli che sembrano non emendabili). Solo così potranno dare un senso a una 'rieducazione' che dovrebbe essere lo scopo di ogni carcerazione e che invece molto (troppo) spesso non lo è. A dare corpo e nervi a Traude e Jenny Monica Bleitbtreu e Hannah Herzsprung. Attrice notissima in patria la prima e figlia d'arte la seconda costituiscono un'ulteriore prova del fatto che il cinema europeo esiste ed è in buona salute. Ma i nostri schermi parlano quasi solo americano (doppiato).
Giancarlo Zappoli
www.mymovies.it

“Un carcere. Due donne. Tre esami. Quattro minuti, per suonare finalmente la musica della propria anima”. Questo il riassunto in breve del secondo lavoro di Chris Kraus. A cinque anni di distanza da Scherbentanz, che segnò il suo debutto sul grande schermo, il regista tedesco torna nelle sale con un dramma elevato e corposo, tutt’altro che scontato. La trama, firmata Chris Kraus, si snoda con andirivieni temporali che svelano il passato delle due protagoniste: assolutamente superbe nella loro interpretazione. Una nei panni della nostalgica ottantenne Traude Kruger (Monica Bleibtreu), insegnante di piano con gli occhi e il cuore al periodo della Germania nazista; l’altra in quelli di Jenny Von Loeben (Hannah Herzsprung), giovane detenuta dal talento nascosto e dall’aggressività meno celata, amante della “musica negra”: l’unica con la quale riesce a dar voce alla sua anima. Tutto è dosato con maestria: le riprese, le simbologie affidate agli insetti, la musica che con le note dei tasti accompagna e dirige l’intera pellicola: tutto, tranne le reazioni dei personaggi, che scaturiscono in maniera naturale, con violenza o con dolcezza, da farci dimenticare di essere di fronte a un film. Il rapporto tra le due donne è il centro della narrazione, cresce piano, senza abbracci, con ostilità all’inizio e poi con stima reciproca; poche le azioni e tanti gli sguardi, profondamente carichi di significato…una relazione sempre precaria, tesa sul filo di una femminilità che porta sul corpo e nel corpo cicatrici dolorose. Se all’inizio il colore che predomina nell’obbiettivo è il blu, a mano a mano che il film si mostra, quel blu si ingrigisce e diventa più cupo, squarciato a volte dalla luce accecante che penetra dalle finestre e svela volti e ambienti, restituiti sullo schermo con una regia che, per adeguarsi alle situazioni, cerca frequente nuove angolazioni di ripresa. Il colore blu però riappare durante il film, tramutato in fiore quando tornano a trovarci vecchi fantasmi del passato, che si rivelano scomodi per entrambe le protagoniste. Un ostacolo al loro affetto e al loro estremo bisogno dell’altra. Credo non ci sia più niente da dire: è un film manifesto del cinema europeo dei nostri giorni e va visto. Solo un’ultima cosa: quante sale a Roma ospitano questo film? ….a tutti buona riflessione.
Vera Usai
www.cinemadelsilenzio.it

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