Il profeta
(Un Prophète) Francia-Italia 2009
di Jacques Audiard.

Con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi., Jean-Philippe Ricci, Gilles Cohen, Antoine Basler, Leïla Bekhti, Pierre Leccia, Foued Nassah, Jean-Emmanuel Pagni, Frédéric Graziani, Slimane Dazi, Rabah Loucif.


Bildungspolar concentrazionario

Come Sure inesorabili di un Corano criminale, capitoli introdotti da perentorie didascalie (Reyeb, Ryad, les yeux les oreilles...) scandiscono l'impaginazione narrativa di Un Prophète, quinto lungometraggio del figlio d'arte Jacques Audiard, auteur che si sporca le mani con gli ingranaggi del polar fin dal suo primo titolo (Regarde les hommes tomber, 1994). Le due linee guida lungo le quali si muove l'opera del cinquantasettenne cineasta parigino sono un'estetica cinematografica poderosamente sensoriale e una predilezione per vicende umane sconvolte dalla rivelazione di un’inclinazione nascosta. Il già citato noir d'esordio e i successivi Un héros très discret (1996), Sulle mie labbra (2001) e Tutti i battiti del mio cuore (2005) raccontano sostanzialmente la stessa storia: quella di individui che, messi con le spalle al muro da eventi e circostanze fortuite, scoprono o esaltano un talento sconosciuto o sopito. La rivelazione è devastante: da quel momento la loro vita non potrà più essere la stessa. Dopo il traballante De battre mon coeur s'est arrêté - penalizzato dal confronto con l'originale (Fingers, 1978, di James Toback) e irrigidito dalla presenza di Romain Duris (platealmente inadeguato nella parte che fu di Harvey Keitel) - Audiard firma con Un Prophète il suo lavoro più imponente e compiuto. Imponente per durata (155’) e portata allegorica (il carcere come riproduzione in scala di un’intera società); compiuto poiché parabola individuale, quadro d'insieme e tensione drammatica armonizzano perfettamente tra loro per dare vita a un’opera di esemplare durezza e feroce umanismo. Compattezza è la parola chiave: Malik (un Tahar Rahim impressionante) è totalmente assimilato alla prigione, non c'è un prima (se non una vaga allusione al riformatorio) né un dopo (se non un’ipotetica reintegrazione familiare) nella sua esistenza, solo un presente di detenzione, regime talmente interiorizzato da coinvolgere nelle sue dinamiche anche l'esterno, dove vigono le stesse leggi di corruzione, coercizione e punizione che regolano il codice della taule (“la gattabuia”).
La galère non è circoscritta alle mura della “Centrale” di Brécourt ma è ovunque, come Ryad (Adel Bencherif) scrive a Malik dal mondo senza sbarre apparenti. Uno stato mentale. Incipit: particolare delle mani ammanettate di Malik. Finale: il suo primo piano a tutto schermo. Un Prophète mette in scena la costruzione di un soggetto strutturato a partire dai suoi frammenti fisici. Dalle mani al volto, passando per una bocca che nasconde una lametta (l’eliminazione di Reyeb), occhi e orecchie prestati alla mala corsa (incarnata dal boss César Luciani, un Niels Arestrup titanico) e piedi nudi che calpestano i segni tracciati sul pavimento delle perquisizioni (il rientro in carcere dopo il primo permesso giornaliero). Un percorso di formazione che tuttavia necessita del simbolico, della parola per attuarsi. Il linguaggio, da sempre fattore di conflitto in Audiard, si fa autentico campo di battaglia e paradossale principio di identità: assimilando e commutando in continuazione francese (le lezioni di grammatica in prigione), còrso (la frequentazione della fazione Luciani) e arabo (l’ultima visione di Reyeb, vera e propria esortazione alla recita), Malik si affranca dalla sudditanza psicologica dell’autorità per affermarsi quale soggetto autonomo e simbolicamente libero - la sordità temporanea nell’imboscata a Marcaggi segna la definitiva rottura con la ricezione degli ordini impartiti dall’alto. In questo processo di costruzione identitaria Malik si scopre visionario (il talento nascosto): le apparizioni fantasmatiche di Reyeb transitano da incubi di colpevolezza a fiamme di consapevolezza. Dato l’ultimo giro di vite nell’interiorità del suo assassino, Reyeb (Hichem Yacoubi) scompare definitivamente lasciando a Malik un’eredità di sangue e scrittura, un piroettante ciclo di crescita: “uscire di qui un po’ meno stupidi di quando si è entrati”. Un Prophète si smarca così dal generico e convenzionale duello di caratteri (il temibile e carismatico boss contro il novellino che si fa strada) per imporsi come la circostanziata e singolare formazione di una coscienza totalmente impregnata di logiche criminali. Il film di Audiard si sbarazza degli stereotipi psicologistici per divenire analisi di una volontà che non ha altri strumenti formativi se non quelli messi a disposizione dal contesto: astuzia, simulazione, camaleontismo, calcolo. E sempre in questo senso si fa riflessione universale sulle modalità di adattamento e sopravvivenza in un microcosmo che riflette spaventosamente i reali rapporti di potere (razzismo, prevaricazione, corruzione e sfruttamento non sono forse le regole che, dissimulate e ingentilite, governano la società civile?). Macchina a mano sensibile come uno stetoscopio (una Aaton 35 III), Audiard gira con una misura semplicemente miracolosa: mai un’inquadratura giudicante, mai un eccesso didascalico, mai una forzatura patetica. Immersi nell’universo concentrazionario di Brécourt, assistiamo all’odissea di Malik senza un attimo di tregua, senza avvertire il tempo che passa, attraversando il cambio di valuta dai franchi all’euro quale unica testimonianza di un mutamento esterno che tuttavia non ha altro significato che quantificare la trasformazione interna del protagonista. Al montaggio di Juliette Welfling (da sempre alla moviola di Audiard) il compito di stabilire percorsi (est)etici sovraordinati, al di sopra del flusso tumultuoso e travolgente di eventi che segnano indelebilmente la coscienza di Malik come dello spettatore. Cinema morale se mai ve n’è stato uno. Grand Prix della Giuria al 62º Festival di Cannes, vincitore di ben nove premi César e candidato all'Oscar come miglior film straniero. Velo pietoso sull'incorreggibile vezzo dei distributori italiani che anche stavolta storpiano il titolo originale determinando l'articolo: Un Prophète diventa Il Profeta, con uno sgradevole retrogusto criptoxenofobo.

Alessandro Baratti – spietati.it

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